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Emilia, Bruno e il passato che determina il futuro
Quando Emilia arriva a Sassaia sembra provenire da un tempo senza tempo. È il Giorno dei Morti e la sua sembra essere una dimensione ferma, isolata, bloccata a tanti anni fa. Già il look lo dimostra, con i suoi jeans strappati, gli scarponcini viola e il giaccone verde fluo, tutto sembra tranne che una donna adulta ormai trentenne. Questa adolescenza che le appartiene sembra confinata in questi suoi modi e in questo tempo sospeso. Non ha voluto sentire ragioni: l’unico luogo dove era disposta ad andare è Sassaia, prendere o lasciare. Ecco allora che il padre, Riccardo, la accompagna, si premura di verificare che tutto sia funzionante, evidenzia la difficoltà di farle avere una televisione e lei che con quello strumento e solo con questo riesce ad addormentarsi, non la prende benissimo. Il monito del padre consiste nell’invito a trovarsi quanto prima un’occupazione perché Emilia deve ricominciare, il suo passato, quell’errore per cui ha pagato, non può essere un marchio a vita. Il “collegio”, come lo chiama lei, è però un luogo difficile da dimenticare e trovare una nuova strada ma soprattutto, darsi una possibilità, è tutto tranne che semplice o scontato. Nel borgo, dirimpettaio alla casa della giovane, vi è Bruno, maestro elementare che con la sua barba lunga ha un’età indefinita. È maestro di scuola elementare in una classe mista, vive da solo da quando era un ragazzo in quella che è la casa che un tempo apparteneva ai suoi genitori. Anche nel suo passato ci sono dei segreti e sono proprio legati alla famiglia. Tuttavia, egli è subito attratto dalla donna, dai suoi capelli rossi, dal suo carnato e anche da quel suo look anni 2000 che proprio cozza con il loro tempo. È chiuso in sé da troppo tempo, l’incontro con Emilia lo porterà a fare i conti con i propri fantasmi.
«[…] Devi perdonarti di essere viva, Emilia
No, non c’è più niente che io possa fare per meritarlo.»
Gli occhi di Bruno e gli occhi di Emilia si riconoscono: entrambi hanno conosciuto la solitudine, entrambi hanno conosciuto il male. Entrambi hanno scontato la loro pena, entrambi cercano un nuovo inizio. Per Emilia questo è Sassaia e poi Bruno, per Bruno diventerà Emilia. La verità che si cela dietro la storia della ragazza non potrà essere celata a lungo e quando verrà a galla, l’uomo dovrà decidere da che parte stare, se far prevalere il dolore, se far prevalere l’amore, se accettare che per tutti c’è una possibilità di redenzione e rinascita.
«[…] Qualsiasi parola sarebbe stata impossibile per entrambi, mentre stordirci l’uno contro il corpo dell’altra e poi l’uno dentro l’altra, era quasi una liberazione. Sentivo tutta la mia solitudine e la sua solitudine che si aggrappavano e si annientavano a vicenda su quella piazza e mezza che sapeva di chiuso, di bosco, di ricordi. L’unico bagliore acceso tra le montagne.»
Ed oltre ad Emilia e a Bruno vi sono tanti altri personaggi incastonati che vanno dal Basilio, che subito la riconosce, a Marta che rappresenta una sfida e che quella sfida l’ha vinta. E ci sono ancora i paesani che hanno paura del nuovo e del diverso, che sono gelosi e che sono pronti a puntare subito il dito e/o a condannare a loro volta perché preda della paura e del pettegolezzo.
Silvia Avallone torna in libreria con un romanzo che ha veramente tanto da dire e che dimostra, ancora una volta, la sua grande maturità come scrittrice. Ne è passata di acqua sotto i ponti da “Acciaio”, “Marina bellezza” o ancora “Da dove la vita è perfetta” e lei ha il grande merito di non aver avuto paura di questo suo osare. È un’autrice mutevole, empatica, attenta ai temi attuali e mai banale.
Con “Cuore nero” affronta un tema molto complesso che oscilla tra la riabilitazione e la redenzione, tra la rinascita e il ricostruirsi una vita quando un fatto del passato ha determinato in modo indelebile quelli che sono i successivi quindici anni della nostra vita.
Nulla è lasciato al caso tra queste pagine. Dietro c’è uno studio, ci sono incontri in Istituti penitenziari minorili quali quello di Bologna, ci sono incontri con giovani uomini che quelle sentenze di condanna le stanno vivendo e da qui cercano di ripartire.
«[…] Esiste di più. Esiste così tanto che respiri con un polmone solo perché l’altro è schiacciato, la gola è ostruita, il cuore è un buco. Ma dirla significa sfilare un proiettile così ben conficcato che ormai fa parte del tuo organismo, i tessuti gli sono cresciuti intorno, le arterie lo hanno innervato. Estrarlo equivale a morire.»
Non è un romanzo esente da pecche, sia chiaro. Nella seconda parte, in particolare, cade un poco nel moralismo e si perde in digressioni che potevano essere sintetizzate. Lo smacco che porta Bruno a “svegliarsi” e la reazione che consegue è altrettanto intuibile ma è anche naturale. Forse non brillerà di originalità per trama e/o personaggi che tendono ad essere stereotipati ma, francamente, credo che questo fosse proprio l’intento della Avallone perché quando si immagina una data realtà noi tutti tendiamo a cadere nello stereotipato e a rimodellare nella nostra mente un personaggio in un determinato modo. Io ho avuto modo di studiare per anni la realtà carceraria, anche visitandola e nell’immaginario comune tanti, troppi volti, sono confinati a un determinato e univoco disegno. Esattamente come è naturale confinarli in personalità che raramente riescono a rifarsi una vita. Il lieto fine tra queste pagine è voluto anche per questo, e cioè per ricordarci che tutti abbiamo diritto a una seconda possibilità anche quando nessuno avrebbe mai creduto in noi. Ciò che regge le fila e che porta “Cuore nero” a vincere è il tratto emozionale e su questo, vince a mani basse.
«[…] Qualcosa lo sapevo, eppure non sapevo niente. Solo che, se anche fosse stato il nostro ultimo ballo, dovevo ballare. Se anche fosse stato il nostro ultimo istante, lo dovevo vivere. Tanto, tutto finiva. Era inevitabile, il futuro. Quindi la baciai con tutto me stesso.»
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