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L'apparato Umano
«[…] Il mondo festaiolo è come se obbedisse a un ordine non dato. Sulle note di questo brano, tutti si mettono a fare il trenino. Scorrono così volti immondi e sofisticati. Preadolescenti eccitati, qualche bambino, addirittura un paraplegico sulla sedia a rotelle, bancari, proprietari di ristoranti, gestori di concessionari d’auto, nonne piene di vita. E poi risate, risate, tante risate. Chissà perché.»
Roma. Roma con i suoi tumulti, Roma con i suoi sfarzi, le sue luci, i suoi eccessi, le sue perdizioni. Tra trenini alimentati da risate in paradosso per abusi e verità celate da falsità e apparenze, tra consapevolezze che infrangono quella maschera costruita ad hoc e con così tanta maestria negli anni. Perché alla fine, Roma dà e Roma toglie. Ma cosa ci resta poi? Chi siamo davvero? Cosa ci appartiene e cosa non ci appartiene?
In questo scenario articolato tra mondo di apparenza, convenienza, scarsi valori e opulenza, cammina Geppino Gambardella, per gli amici Jep. Quest’ultimo ha all’attivo un unico libro, “L’apparato umano”, che al tempo ha fatto un discreto successo e vive scrivendo articoli di giornale per Elide Lettieri, per tutti “Dadina”, una nana tanto piccola quanto astuta e acuta nel valutare e riconoscere chi ha davanti. Il nostro antieroe scrive articoli di costume, intervista maestri del cinema, soggetti borderline che si sentono artisti quando non lo sono e vive alla ricerca di un tutto quando abita in un grande Niente. A fargli da contorno, eroinomani, ex star dello spettacolo, nobili decaduti, uomini e donne alla ricerca di un successo che oggi è dato dal fare l’attore e domani dallo scrivere, cocainomani, magnaccia e chi più ne ha più ne metta.
«[…] Sono anni che tutti mi chiedono perché non torno a scrivere un romanzo. Ma guarda là fuori, Ahè. Guarda in terrazza. Quella gente. Questa è la mia vita. Ed è niente. Flaubert voleva scrivere un romanzo sul niente e non c’è riuscito. Come potrei riuscirci io?»
A far da sfondo lei, la Grande Bellezza: Roma. Roma con i suoi cieli, i suoi modi di vivere, il contrasto costante tra luci e ombre dato da palazzi romani, da un lato, la Fornarina di Raffaello dall’altro, regole di costume e di etichetta pedisseque, uomini e donne come Ramona che nel suo essere “coatta” è quanto di più autentico Jep conosca in un mondo non autentico. La Fornarina di Raffaello ricorda a Jep Elisa De Santis, l’unica donna che ha mai amato nella sua vita quando ancora era un ragazzo. Ora che di anni ne ha compiuti sessantacinque, scopre che ella è morta. Questo rappresenta in lui la crepa che si insinua nella costante dei suoi giorni. È una crepa che prende sempre più forma e forza; non si può tornare indietro ora che qualcosa si è rotto.
«[…] Romano: Se dopo tanti anni vuoi riprendere a scrivere, significa che è successo qualcosa.
Jep (fa spallucce): A Roma succede sempre qualcosa.»
Avvicinarsi a un titolo come “La grande bellezza”, significa avvicinarsi a una sceneggiatura intrisa di riflessioni che lasciano il segno per la profonda durezza dei contenuti e il profondo cinismo che si articola tra le varie pagine. Il ritratto che emerge della nostra società attuale è molto veritiero ed è anche per questo che suscita emozioni diverse. Le stesse diverse emozioni, anche contrastanti, che emergono osservando il film, che al tempo della sua uscita nelle sale divise il pubblico tra chi lo aveva amato e chi, al contrario, lo aveva odiato. E se ci pensiamo bene, è normale che sia così. Si tratta di un qualcosa che non suscita empatia bensì distanza. Chi legge o vede la pellicola è spiazzato da quel che si trova davanti, tende a volerlo negare, a rifuggire dall’accento che viene posto e in modo così nefasto sui nostri anni del contemporaneo. Dall’altro lato, si cerca di resistere e di non rifuggire a quanto si osserva per riflettervi, capire, interrogarsi.
La sceneggiatura nulla toglie al film, anzi, definisce alcuni aspetti che nella trasposizione restano vacui, indefiniti. Al contempo, ne emerge un testo dalla scrittura lineare e compatta che si imprime nella mente.
Tra le pagine le stesse sensazioni del film, tra il Felliniano e il malinconico ma anche il surreale e poetico e l’amaro.
«[…] Tu t’annoi con me. Io so’ normale. Con tutte le matte che conosci perché proprio io?»
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