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Ricercatore, ricerca te stesso
“Campus novel” : ecco a te, lettore, servito con l'ennesimo anglismo (ma vedrai, riusciremo a volgerlo in lingua italiana), un ulteriore sottogenere del romanzo, che conferma, se mai ve ne fosse bisogno, il suo carattere proteiforme, duttile, camaleontico. Questa ennesima declinazione di genere ha qui da noi come protagonisti baroni universitari e “delfini”, assistenti e dottorandi dall’avvenire nebuloso e precario, stretti tra giochi di potere ed una legislazione che trasforma la loro carriera in una corsa ad ostacoli, concorsi pilotati, servilismo nei confronti del “capo”, perfino vezzi, tic, codificazioni linguistiche dalle maglie strettissime e inderogabili. Un mondo, o .per meglio dire, un topos letterario fatto di persone egoriferite, che soffrono e si infuriano se qualcuno ne rimarca un errore, magari un'etimologia errata, come in Pontiggia ("Il giocatore invisibile"), che si guardano l’ ombelico convinte di essere il centro dell’universo, tanto da chiedersi, ad esempio, come mai un loro saggio sulla metrica nella poesia dialettale tra Otto e Novecento abbia venduto meno dell’ultimo premio Strega.
In queste acque naviga, con regale padronanza, il coprotagonista de La ricreazione è finita, Raffaele Sacrosanti, docente di italianistica, nonché preside della facoltà di Lettere all’università di Pisa, città-campus, scelta per questo in molte opere appartenenti allo stesso filone (anche se Ferrari in un’intervista dichiara l’ambientazione della sua storia priva di nessi con personaggi e fatti reali).
Sacrosanti è personaggio complesso, non lo liquidi con una condanna univoca: è vero, è il dominus incontrastato di questo microcosmo; è certo, trae “un godimento quasi erotico dai rapporti di potere accademici”. Ma una cosa è altrettanto sicura: il fascino intellettuale che sa esercitare sui suoi sottoposti è tipico dei grandi maestri (non ti anticipo se buoni o cattivi…).
Di questa satira della vita accademica, che caratterizza l’intera prima parte, la scena più brillante e divertente, direi emblematica con un termine più vintage, è rappresentata dalle regole sulla composizione di un articolo accademico che un dottorando di lungo corso, Pierpaolo, illustra a Marcello, protagonista e io narrante, vincitore di un dottorato per una serie apparentemente fortuita di circostanze. Cito alcune perle del “vangelo pierpaolino”: ribadire almeno una trentina di volte con parole diverse la propria tesi, che potrebbe benissimo ridursi ad una decina di righe (quello che a scuola, ai miei tempi, i professori definivano, correggendo i nostri temi a corto di idee, “allungare il brodo”); utilizzare le citazioni come strumento di posizionamento politico, cioè citare numerose volte il mentore da cui dipende il proprio destino accademico, non citare mai gli avversari e i nemici dello stesso, o, se costretti, limitarsi a riferimenti generici; evitare di fare altrettanto con chi potrebbe esserti utile e, se trascurato, potrebbe ostacolare la tua carriera. Insomma, una cultura asservita, fin nelle sue manifestazioni marginali per i non addetti ai lavori, ad una logica dei rapporti di potere e di forza e condizionata da un codice comportamentale altamente formalizzato.
Ciò che rende ancor più spassoso il tutto è la distanza abissale tra il giovane neoricercatore e il suo “istruttore”, tanto più preparato di lui e tanto più addentro a quelle logiche. Illuminante la chiusura del capitolo, in cui Marcello interrompe la lettura di un saggio di Sacrosanti che Pierpaolo gli aveva consigliato, per comunicare telefonicamente ad un amico la sua adesione ad una partita di calcetto. Un tipico caso di ironia (anzi autoironia) oggettiva, in cui sono i fatti e il loro giustapporsi a far sorridere, senza alcun intervento a commento del narratore. Ironia e autoironia sono del resto, in tutte le loro varianti, il registro che sostiene in misura non trascurabile la costruzione retorica della trama, contribuendo alla piacevolezza della narrazione.
Ma, in concomitanza con il primo, ecco delinearsi un secondo livello: il racconto di formazione. Marcello è un giovane non più tanto giovane, che riconosce e in qualche modo ostenta senza infingimenti la sua inferiorità culturale rispetto ai colleghi. E’ un irrisolto consapevole di esserlo, si guarda vivere e replica così, in tono minore, la tipologia dell’inetto, antico retaggio della letteratura italiana ed europea, innestandola nell’epoca moderna e finendo con l’equipararla alla figura del cosiddetto “bamboccione” o dell’eterno adolescente (e così viene toccato anche il tema generazionale, ma ti risparmierò un’ulteriore contestualizzazione letteraria: la pazienza, anche la tua, ha un limite). Respinge infatti tutto ciò che possa significare stabilità e inserimento sociale, opponendo continui rifiuti al padre, che vorrebbe affidargli il bar di famiglia, sfuggendo ai tentativi di incastrarlo messi in opera da Letizia, la sua ragazza, che ne rappresenta l’esatto contrario e proprio per questo sarebbe in grado di fornirgli un aiuto pratico, quasi in una riproposizione del legame Zeno -Augusta. Marcello si imbatte però, indirizzato da Sacrosanti, nell’opera e nel pensiero di Tito Sella, un terrorista della brigata Ravachol che operò in Versilia negli anni Settanta, e finisce con l’identificarsi con lui, restando colpito in particolare dall’ improvviso mutamento di rotta che conduce (condurrebbe?) l’attivista e scrittore a condividere un’azione terroristica e violenta da cui si era inizialmente dissociato. In questo gioco di doppi e di rispecchiamenti, Marcello rivede anche in Tea, la ragazza incontrata a Parigi durante le sue ricerche, una sorta di reincarnazione di Emma, la donna amata da Tito. Ma poi…
A questo punto devo però tacere (già mi sono spinto troppo oltre con quel condizionale…), perché tu, lettore, non mi perdoneresti di averti spoilerato un finale così bello e sorprendente, nel quale il romanzo accademico (tale è la traduzione italiana di “campus novel”) e il racconto di formazione inclinano verso il terzo livello di quest’abile struttura narrativa: il giallo, di cui erano presenti nel racconto, senza che ce ne rendessimo conto, gli elementi principali: delitto, movente, indagine, depistaggi, scioglimento, soluzione e individuazione del “colpevole”.
Ma i piani di questo interessante lavoro non restano distinti, bensì si incastrano perfettamente l’uno nell’altro. Anzi, l’uno non sarebbe possibile senza gli altri due. Tutto questo potrà essere verificato nella lettera finale che Marcello indirizzerà al suo professore, in cui si coglierà la sintesi di una triangolazione perfetta tra le varie componenti della narrazione, cui si aggiungerà il meccanismo del metaromanzo o romanzo nel romanzo: quella “Fantasima”, opera mitica di Sella, mai scoperta, che il ricercatore stesso scriverà, elaborando la documentazione raccolta sul suo presunto autore.
Giunto alla fine di questa “fabula” ricca di suggestioni, caro ” lector”, scoprirai anche il vero significato del titolo. L’esortazione rivolta da Charles de Gaulle agli studenti del Maggio francese affinché tornassero finalmente a scuola, si caricherà di significati nuovi e in qualche misura opposti rispetto a quelli originari del capo di Stato che strigliava paternalisticamente gli studenti e si tradurrà in altro, cioè nel bisogno per ciascuno di comprendere il proprio ruolo nella vita, l’essenza del proprio sé, compiendo quello scatto, realizzando quella svolta che avvicina ciascuno di noi a ciò che davvero siamo e che vogliamo diventare.
A questo punto, se sarà maturato in te, non per merito di questa mia modesta “opinione”, ma della capacità di scrittura e di invenzione dell’autore, un qualche interesse per l'argomento, potrai trovare nei consigli di lettura un accenno alla ricca galleria di romanzi italiani ambientati nel mondo universitario, nella quale Ferrari si inserisce in maniera originale e convincente.