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Il nostro grande tutto?
«[…] Sarebbe bello poter piegare il tempo in due, come se fosse un foglio di carta, farci un buco e congiungere il presente con il passato. Io potrei essere ancora vivo, nel passato e attraverso quel buco potrei allungare la mano e stringere la tua, nel presente.»
Lui e lei. Un uomo e una donna, due amici. Poi un giorno come un altro quell’essere semplicemente amici diventa altro. Si sviluppa un’attrazione che porta al maturare di un sentimento che diventa sempre più specifico e che si trasforma in un amore specifico per una persona specifica. E poi, come in un brutto sogno, il niente. Stanno per sposarsi quando lui, a causa di un incidente, muore. Cosa resta di lei? Cosa resta di lui? Cosa resta di loro? È possibile andare avanti? Come vivere e come affrontare il dolore della perdita tanto per chi resta tanto per chi se ne va? E se tutto ciò che stato venisse dimenticato? Sarebbe più facile accettare il pensiero della morte se vi fosse la consapevolezza che una volta morti il tempo per gli altri si fermerebbe?
«[…] Non perché ci abbia trovato un senso, ma perché quando ci stringiamo forte prima di dormire, nella nostra tipica posizione, è come se le stringhe che compongono il tuo corpo si aprissero per unirsi a quelle del mio. E le mie a quelle del tuo. Non siamo più solo due post-scimmie unite in una relazione sentimentale-copulativa, ma qualcosa di più: tu vivi un po’ attraverso di me e io vivo un po’ attraverso di te.»
Ed è proprio sulla continuità dopo la morte che si sviluppa e basa “Il nostro grande niente”. Il nostro eroe è morto in queste pagine a firma di Emanuele Aldovrandi, ma continua a sentire e vedere. Osserva la fidanzata, osserva il suo dolore, osserva la sua rinascita. Sente le sue lacrime, sente le sue parole, sente i suoi bisogni. Perché un evento traumatico può cambiarti lasciandoti delle cicatrici indelebili e anche quella che può essere una storia sulla perdita di un amore e sulle sue conseguenze, può rivelarsi ben altro.
Se nella prima parte dell’opera il lettore tende ad empatizzare con l’amore perduto, la malinconia, la realtà che avanza, nella seconda sono le domande a cui dare risposta le vere sceneggiatrici e le vere attrici della pièce teatrale. Esistono verità assolute? Che valore ha davvero il “per sempre”? Che valore ha l’attimo, il godere dell’istante, il sentirsi vivi in quel momento ora e adesso? E non è forse l’amore l’unica vera chiave con cui poter dire di aver concretamente vissuto?
«[…] Noi esseri umani abbiamo sempre combattuto contro quello che la natura aveva previsto per noi. Pensaci. Verrete mangiati dagli animali più grandi di voi – e noi abbiamo inventato le armi. Verrete schiacciati dagli agenti atmosferici – e noi abbiamo costruito le case. Verrete uccisi dalle malattie – e noi abbiamo inventato la medicina. Le nostre tappe evolutive si sono fondate su questo, sul rifiuto del nostro destino naturale, cioè la morte. E anche adesso gli uomini più ricchi della Terra non si accontentano di vivere fino a novant’anni, ma investono miliardi per studiare.»
Dal ritmo rapido e le sequenze velocissime il titolo ci prende per mano e ci conduce in una riflessione sulla nostra vita, su quelle che sono state le occasioni e le possibilità perse, su quelle che sono state da sempre le nostre certezze. O almeno così credevamo. Ci invita, ancora, a riflettere sulla morte. Perché quello che più dovrebbe farci male non è tanto lasciare la vita quanto abbandonare tutto ciò che per noi le ha dato un senso. E non è forse proprio la morte, alla fine, a dare un senso alla vita?
Al tutto si aggiunge uno stile fresco, dinamico, ironico e intelligente che sulla falsa riga della leggerezza narrativa porta il lettore a interrogarsi sulla profondità del vivere, dell’esistere e del sopravvivere. Questo per mezzo non dei nostri occhi ma per mezzo di una prospettiva esterna e più oggettiva.