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Vorrei che fossi qui
È il mio primo libro di Mari e non sarà l’ultimo. Perché la sua scrittura ha forma e sostanza, si fa leggere con gusto e, pur dentro una materia specialistica, quasi settaria, deposita tonnellate di contenuto nei magazzini della conoscenza.
L’opera affronta la parabola umana e artistica dei Pink Floyd, l’abilità di Mari sta nel prenderne al lazo sia i fanatici, quei talebani per cui o Floyd o morte, sia i loro estimatori tiepidi, che sanno distinguere i diamanti dalla bigiotteria e al cui club mi iscrivo, sia chi di Waters e soci ha solo sentito parlare.
Lo fa grazie a un estro letterario superiore, in grado di generare sinergia tra verità storica e creazione fantastica, tra personaggi reali e figure immaginarie.
Fin dall’impianto è chiara l’indole poco ortodossa della narrazione, articolata attraverso una serie di capitoli brevi o brevissimi in cui di volta in volta parlano in prima persona protagonisti, antagonisti e comparse della galassia scenica floydiana. Si tratta, come precisa lo stesso Mari in prima pagina, di confessioni, testimonianze, lamentazioni, interrogazioni, esortazioni, referti, rivelazioni e contemplazioni. Di piccole storie incastonate nella loro macrostoria leggendaria.
Questa è la sfida vinta dall’autore, utilizzare il punto di vista necessariamente soggettivo di ogni tessera, attendibile o meno che sia, per comporre il mosaico completo e grondante d’epica della band di Cambridge, la cui traiettoria musicale e non viene indagata con fervida meticolosità.
Al centro del palco giganteggia Sid Barrett, ogni intervento, dei compagni, degli amici, dei parenti, dei colleghi, lo evoca, espressamente o in forma tacita. Risulta evidente come Mari faccia dipendere da Barrett, dalla sua genialità, dalla sua follia, qualsiasi evoluzione o involuzione dei Pink Floyd, con ciò garantendosi tanto la consacrazione da parte degli integralisti barrettiani, quanto il rancore di chi individua in Waters e Gilmour i veri artefici del mito.
Non si nasconde Mari, un po’, credo, per coerenza, lui stesso è un barrettiano convinto; un po’ per scaltrezza narrativa, già che non ci possono essere dubbi su come la vita e le intemperie di Barrett rappresentino un intreccio ben più appetitoso rispetto alle vicende degli altri floyd, comunque ritratti sempre con dovizia di particolari e attenzione filologica.
Il risultato è una sorta di romanzo biografico a incastro, la cui fruizione è gradevole, coinvolgente e istruttiva, adesso so molte più cose dei Pink Floyd.
Tra le tante perle, arricchite da uno stile ora colloquiale, ora volutamente ribelle alla sintassi, ora lirico, il contributo in apertura di Arnold Layne, protagonista del primo singolo della band, anno 1967, quel travestito col vizietto di collezionare biancheria intima femminile e immaginato mentre incontra Barrett. Ma anche le lamentazioni di Stanley Kubrick, indispettito dal doppio rifiuto di Waters riguardo a comporre la colonna sonora di Odissea nello spazio e Arancia meccanica. E le confessioni dei quattro floyd, lo stesso Waters, Gilmour, Mason e Wright, raffigurati come animali - cavallo, gatto, cane, topo - in ossequio all’omonimo album e alla sovrabbondanza di fauna in tutta la loro produzione. O le testimonianze di Bowie, Brian Jones, Alan Parson.
Rosso Floyd è il mio primo libro di Mari e non sarà l’ultimo, voglio valutarne la caratura anche dentro un racconto canonico, lontano dalle logiche della biografia, per quanto della grammatica della biografia quest’opera abbia davvero poco.
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