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Per non dimenticare
Ci ho messo più di cinquant’anni per affrontare uno dei classici della nostra letteratura.
C’era qualcosa che mi allontanava, lo immaginavo testo lugubre, pensoso, forse anche scontato nel raccontare l’Italia fascista alle soglie della guerra.
Mi sbagliavo.
Certo, Bassani non è Festa Campanile o Fruttero & Lucentini, non ambisce a divertire o stuzzicare il lettore – impresa peraltro improba trattando di antisemitismo – tuttavia la sua prosa rivela sacche sorprendenti di ironia, un’ironia sobria, sommessa ma sempre ironia, più carsica nel dipanare la trama, più evidente nel dipingere alcuni personaggi minori, come Perotti o il padre di Giorgio.
Anche la relazione tra Giorgio e Micol, colonna portante del romanzo, viene sapientemente tenuta a distanza dal drammatico contesto storico-sociale in cui si sviluppa; Bassani preferisce la leggerezza alla gravità, leggerezza incarnata alla perfezione dalla gioia indisciplinata di Micol e dall’oasi felice del parco dei Finzi Contini: è lì che, mentre il mondo si avvita su se stesso, si gioca a tennis, si parla di Carducci, si soffre d’amore, si vive, nonostante tutto.
Sono questi elementi distraenti a tutelare, a enfatizzare lo spirito salvifico del racconto; sappiamo, sentiamo che la storia è avviluppata dalla Storia soltanto grazie ad alcuni illuminanti dialoghi tra i protagonisti, in cui emergono la progressione brutale del fascismo e la sua inevitabile commistione col nazismo, testimoniata dalla promulgazione delle leggi razziali.
Qui viene naturale il confronto con Elsa Morante: nel suo "La storia" la guerra è immanente, avvolge senza mistero le vicende del piccolo Useppe, tanto che l’autrice ne elenca i passaggi salienti all’inizio di ogni capitolo.
Bassani no, Bassani sceglie il rimando indiretto, il riferimento incidentale, affidando a chi legge l’interpretazione su come e quanto nel 1938 le vite dei Finzi-Contini e degli ebrei italiani dipendessero dalla follia criminale di Hitler e dall’asservimento opportunistico di Mussolini.
Questo gioco di specchi, a volte deformanti, è l’aspetto che più ho apprezzato del romanzo. L’intreccio sentimentale tra Giorgio e Micol, seppur ottimamente gestito e lasciato irrisolto di proposito, è coinvolgente ma non fa la differenza; l’abile descrizione di personaggi e paesaggi urbani – le vie e i palazzi di Ferrara intervengono con frequenza e grazia – è appagante ma non fa la differenza: il carattere distintivo dell’opera lo rintraccio nel consegnare al lettore le chiavi della decifrazione storiografica attraverso la quotidianità più o meno normale ma gradualmente contaminata dei Finzi-Contini e del cerchio di amici e parenti che ruota loro intorno.
A incorniciare la sostanza narrativa, una scrittura insieme fluida e digressiva, alta e colloquiale, impreziosita da un granitico, originalissimo uso del discorso indiretto, per nulla corrotta dalle sporadiche, inevitabili obsolescenze lessicali.
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Interessanti osservazioni.
Un libro letto e riletto, sempre con interesse e piacere.