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Vita, morte e “miracoli” di una faina
Archie è una faina. È nata poco prima di quando sua madre è restata vedova. Infatti il compagno, noto ladro di galline, era stato ucciso a fucilate da un contadino, stanco per l’ennesimo furto. Così Archi e i suoi fratelli sperimentano la fame e i patimenti, giacché la madre fatica a trovare cibo per tutti loro. Quando un giorno Archie decide di contribuire al sostentamento della famiglia e, avvistato un nido di pettirossi, si avventura lungo un ramo, gli capiterà un infortunio che lo segnerà per tutta la vita. Il ramo si spezzerà e lui, caduto a terra, resterà per sempre zoppo e dolorante a una gamba. La madre, decisamente pragmatica, deciderà, allora, di “cedere” Archie all’usuraio Solomon, per una gallina e mezza.
Solomon è una vecchia volpe, saggia e astuta che, dopo una vita da bandito, s’è convertita a una vita più onesta. Ora commercia con tutti gli animali del bosco, scambiando vegetali del suo orto, uova e polli del suo allevamento (che amministra con scrupolo) in cambio di altri beni e relativi interessi. E semmai il debitore dovesse tardare nel saldare le pendenze, il grosso cane Gioele provvederebbe a recuperare il dovuto, con le buone o con le cattive.
Ma Solomon è molto più di questo: sa leggere e scrivere ed è affascinato dagli uomini (è convinto di essere un uomo reincarnato) e crede in Dio. Nella sua tana conserva gelosamente una bibbia che legge con devozione e colleziona tutti i manufatti umani su cui riesce a mettere le zampe. Archie, dopo settimane da “schiavo” entra nelle grazie di Solomon che gli insegnerà a leggere e che ne farà un suo apprendista. Ma la vita di una faina non è mai semplice e ad Archi capiteranno mille avventure, spesso niente affatto piacevoli.
Ho sempre molto apprezzato i romanzi con protagonisti gli animali, per quel fondo di incontaminata ingenuità che tendiamo ad attribuire ai nostri vicini pelosi e per quel modo che hanno di mostrarci i nostri pregi e i nostri difetti, attraverso una diversa prospettiva. Ma ci sono mille modi per rendere un animale protagonista di una storia che lo riguardi e parli pure di noi. Si può, assai semplicemente, raccontare di lui dal nostro fallace punto di vista, narrandone le vicende così come noi le percepiamo, senza sforzarci di immedesimarsi in lui. All’estremo opposto è possibile arrischiare una storia mostrando il mondo attraverso i suoi sensi e le sue impressioni; tentando di interpretare in qual modo lo stesso percepisca ciò che lo circonda (noi compresi) e si adatti ad esso. Tra i due estremi ci sono, poi, ovviamente, innumerevoli sfumature. Ma c’è pure un metodo ancor più radicale di parlare degli animali, usarli come maschere dietro cui celare noi umani, le nostre qualità e, soprattutto, le nostre mancanze. Lo si può fare nell’ingenuo e edulcorato modo della Disney, ma pure con una più attenta valutazione di sentimenti e comportamenti.
Il romanzo di Zannoni si pone in una terra di mezzo tra tutte queste tipologie di romanzi “animaleschi”: il mondo degli umani è posto sullo sfondo come una presenza immanente, ma discreta e la società degli animali si atteggia secondo regole non scritte. Gli attori di questo libro sono sì parzialmente umanizzati: parlano tra loro, di qualunque specie essi siano, e comunicano in modo articolato e complesso; usano utensili, vivono in tane che sembrano più case rurali che rifugi naturali. Hanno cucine dotate di stoviglie e focolare, camere con letti, sedie e arredi vari; praticano il commercio, l’agricoltura e l’allevamento (le uniche che, stranamente, sono restate allo stato totalmente bestiale sono le galline, macchine per uova e carne). Alcuni, come Solomon, leggono pure, si dicono religiosi e credono nell’Aldilà. Tuttavia nessuno di loro ha dismesso i primordiali istinti ferini. Uccidono per difendersi o per procacciarsi il cibo, senza alcuna remora morale, anzi con un’intima gioia e appagamento, senza neppure il tabù del cannibalismo. Si accoppiano proni alle pulsioni stagionali ignorando cosa sia l’incesto. Provano sentimenti “umani” come l’amore, l’amicizia, l’odio, la bramosia, il desiderio di vendetta; Solomon, addirittura è un intransigente bigotto (almeno quando gli fa comodo), ma rimangono animali selvaggi per i quali l’unica legge che conti davvero è quella della Natura.
Questa dicotomia, anzi questo crogiuolo di elementi contrastanti e confliggenti gli uni con gli altri, se da un lato è la ragion d’essere della storia, dall’altro non sempre sembra funzionare perfettamente, raggiungere lo scopo, per altro niente affatto chiaro. Più di una volta, il fluire del racconto sembra incepparsi, incappare in contraddizioni, assurdità, esagerazioni. Insomma il meccanismo non appare ben oliato, ma stride e fatica a procedere. Gli animali “colti” paiono ossessionati solo dalla consapevolezza di dover morire, dal fatto che la morte non sia una cosa che riguarda solo gli altri. La connotazione fiabesca della storia viene continuamente turbata dal carattere tragico delle vicende, la continua immanenza della morte violenta, cala una cappa plumbea sul racconto, senza che sia chiaro il messaggio che si vuol trasmettere. Soprattutto l’evidente intento di voler trattare troppi grandi temi (il rapporto col divino, con la verità e la conoscenza, con il potere della letteratura di tramandare le nostre esistenze dopo la morte e di elevarci a uno stadio superiore a quello puramente bestiale), senza poter, d’altronde, fornire risposte, è un carico eccessivo per una storia che poteva essere molto più agile e fruibile.
Considerando la giovanissima età dell’A. l’opera è sicuramente di notevole interesse, ma forse il tema avrebbe meritato un approccio più maturo e ragionato.