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Storia di chi fugge e di chi resta
 
Storia di chi fugge e di chi resta 2023-11-27 11:15:47 lego-ergo-sum
Voto medio 
 
4.3
Stile 
 
4.0
Contenuto 
 
5.0
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lego-ergo-sum Opinione inserita da lego-ergo-sum    27 Novembre, 2023
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Lenù, inattendibile come Zeno

Al suo terzo volume, ti prende sempre più questo romanzo, ora che i personaggi ti vengono incontro dalla pagina sempre meglio sbalzati e definiti, lasciandoti un’impressione di vita e di verità.
Alfonso Carracci sa guardarsi dentro con spietata lucidità e, quando rivela a Lila la propria omosessualità, lo fa senza mezze misure, utilizzando la parola più greve e pesante che il dialetto gli mette a disposizione in quell’area semantica :”Lila, so’ ricchione”. Michele Solara trova accenti a loro modo “poetici” nel descrivere “quella cosa viva” che sta dentro la mente di Lila, quell’essere che la rende brutta e sgradevole quando non è giornata, creativa e geniale nei momenti felici. E le dichiara, lui sessista, triviale, chiuso negli schemi di una mentalità retrograda e malavitosa, un amore che a suo modo è acqua cristallina, persino spogliato della brama materiale di possesso, ammirazione e contemplazione come davanti ad un’artista. Intanto Gigliola, la moglie, è sempre più consapevole che nell’esistenza del marito lei non occupa altro ruolo che quello di madre, procreatrice, organizzatrice della vita domestica. E’ lui stesso che glielo ripete continuamente, senza riguardi, inducendola a farsi, per reazione, sempre più sgraziata, volgare, insopportabile, come per una protesta illogica e rabbiosa contro un'esistenza infelice. Emerge, tra le tante figure, la madre di Elena: un miscuglio contraddittorio e rabbioso di orgoglio materno, ma anche di odio nei confronti della figlia, di soddisfazione per la sua scalata sociale e culturale e di frustrazione per non aver saputo o potuto fare altrettanto, lei che pure si ritiene provvista delle medesime qualità: ne risulta un continuo, rancoroso dibattersi contro la vita e contro gli altri, una diversità “maledetta” di cui la zoppia è quasi il segno tangibile. Silenzioso, schivo, generoso nel dare e rassegnato nel chiedere, sofferente della sua passione non ricambiata per Lila, che teme di perderlo ma non lo desidera sessualmente, testardo nel tentare un avanzamento sociale, ma sempre rispettoso dell’intelligenza superiore della sua compagna: questa è la cifra che caratterizza Enzo. Non gli è estranea la dimensione politica, che percorre l’intero romanzo e questa sezione in modo particolare. Accanto a lui c’è l’amico Pasquale, segretario rionale del partito comunista, in rotta con la linea moderata di Berlinguer, presto schieratosi su una linea dura e oltranzista che lo accosta al terrorismo e, nel privato, lo spinge ad assumere toni via via più arroganti nei confronti di chi vive la stessa fede politica da una diversa posizione sociale e con atteggiamento più moderato e “borghese” (si pensi alle ripetute offese rivolte a Pietro, il marito di Elena, durante una breve visita, o piuttosto una fuga, condotta all’insegna della più sfacciata arroganza e maleducazione).
Anche sull’asse politico si snoda il rapporto tra i due personaggi centrali del romanzo: Lenù e Lila. La prima sembra anch’essa propendere per le posizioni estreme, almeno in teoria. In questo le si oppone il cauto riformismo del marito, Pietro Airota, nemico dell’estremismo rivoluzionario o pseudotale: un personaggio preso a calci da tutti, dalla moglie, da Pasquale, da Nino, e forse compreso solo da Lila. Egli non ha altra colpa se non quella di un rigore intellettuale che avversa e svela pressappochismo ed empiti incendiari destinati a fallire. Patetico ma anche, a suo modo, eroico.
Dall’altra parte c’è Lila, restia a scendere nell’agone sindacale e politico e a mettersi in gioco, pur essendo l’unica a conoscere di persona cosa siano sfruttamento operaio, condizioni di lavoro insopportabili, violenze e maltrattamenti in fabbrica. Tirata per i capelli nel vivo del conflitto padrone-operai dall’azione incauta dei suoi compagni, la giovane confermerà il suo lucido realismo, la capacità di analisi, la duttilità nel cogliere le situazioni, saperle descrivere, e in un batter d’occhi, sulla base della sua esperienza vissuta, riuscirà ad elaborare un documento sulla violenza e sullo sfruttamento operaio di gran lunga più vero e aderente alla realtà degli astratti proclami dei suoi compagni, “marxisti immaginari”.
Ovviamente questa folla di personaggi che popola il racconto, si realizza e si compie quando l’uno entra in rapporto con l’altro. E’ per questo che i ritratti di gruppo sono tra le invenzioni più belle della Ferrante. Domina, tra tutte, il pranzo a casa di Marcello Solara e della sua compagna Elisa, sorella della protagonista, in cui ciascuno si inserisce perfettamente in un grande coro dove ognuno canta con la sua voce solista, ma si fa porgere al momento opportuno la battuta dall’altro e a sua volta, alla stessa maniera, gliela porge . Qui davvero l’autrice si è superata ed il romanzo delle parole diventa un’armonia di voci che non ti annoieresti mai di sentire, tanto sono vere e tanto bene si definiscono nel loro reciproco accostarsi e contrastarsi. Ne risulta una rappresentazione sociale forte e potente come raramente si vede nella nostra letteratura e che trova riscontro solo nei grandi (non si può fare a meno di pensare all'episodio del ballo nel Gattopardo).
Raccontato in prima persona, probabilmente sulla base di fatti realmente accaduti, ma debitamente rielaborati, il romanzo, proprio per la ricchezza dei suoi personaggi e per la coralità dei rapporti e della rappresentazione, sfugge al triste destino di questo genere in Italia: sfociare in un racconto autobiografico rachitico e solipsistico, tutto incentrato sui drammi dell’io, lontano dalla ricchezza, dalla varietà, dalla complessità del mondo reale e dai conflitti della storia. Non a caso è piaciuto tanto fuori d'Italia.
A proposito della interrelazione dei personaggi, non si può non sottolineare quella che lega tra loro Lenù e Lila. Le due protagoniste ti sorprendono continuamente, ti spiazzano, per l’amore si direbbe quasi ancestrale che si dimostrano, il patto di sangue che ha retto le loro esistenze fin dall’episodio iniziale delle bambole perdute, il continuo essere l’una riferimento per l’altra, ma anche l’improvvisa cattiveria, il rinfacciarsi verità amare, il reciproco, amaro deludersi, perfino il colpirsi nella sfera dei rapporti sentimentali, fino all’estremo limite del tradimento. Si pensi al legame tra l’amica geniale a Nino Sarratore, “tolto” da Lila a Elena, che ne ha fatto il mito della propria esistenza, ma niente affatto privo di difetti che ella sa solo a tratti cogliere, scoprendolo seduttore nato, non diverso per certi aspetti dalla squallida figura paterna, opportunista, alla ricerca di consensi in quegli ambienti intellettuali e politici in grado di riconoscerne le doti e apprezzarne le capacità: uomo dalla vita affettiva e sentimentale discontinua e inaffidabile, ma forse proprio per questo corteggiato, cercato, voluto. Non sarebbe stato fuori luogo in un romanzo di Balzac o Stendhal, tra gli uomini mossi nella loro esistenza unicamente da un indomabile desiderio di scalata sociale.
E chiudiamo con Lenù, colei che narra, ricuce, collega, mette insieme i pezzi della storia, pone a confronto luoghi, spazi, ambienti, diversità antropologiche, in un continuo andirivieni tra Pisa, Firenze, Napoli. Ma quando analizza se stessa, la protagonista balbetta, entra in contraddizione, fino ad entrare anch’essa nella schiera dei narratori inattendibili, inaugurata da Zeno nel capolavoro di Svevo. Tocca al lettore cogliere il filo conduttore di questa esistenza fragile, incerta, piena di contraddizioni, di insicurezze, di senso d’inferiorità rispetto ai suoi interlocutori privilegiati, Nino e, soprattutto, Lila: il bisogno di un’affermazione intellettuale e culturale che la riscatti dalle sue origini popolari nella Napoli del rione Gianturco. Una bipolarità mai del tutto superata, perché questa storia che l’autrice ci ha regalato, parafrasando il titolo, è la storia di chi fugge, ma è anche e soprattutto la storia di chi, pur essendo fuggito, in realtà, in un modo o nell’altro, è restato.

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Ovviamente i primi due volumi. Interessante il confronto con l'ottimo adattamento televisivo, nel quale il linguaggio attinge a piene mani al dialetto, qui invece sottinteso, a tratti richiamato, ma quasi sempre riformulato in lingua italiana dalla voce narrante di Elena Greco. Inoltre la voce fuori campo del film non rende giustizia alla ricchezza del monologo interiore di Lenù.
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Mi sono messo da solo un like e non riesco a toglierlo. Pardon. Mi era già capitato una volta.
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