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Ci sono cose che si fanno e cose che non si fanno
Un romanzo che ci porta diretti in una Sardegna anni ’50 ancora legata a riti e tradizioni in parte arcaici, in difficoltà nel confronto con la modernità incipiente. E’ infatti ancora in uso la pratica dei “figli dell’anima”, bambini cioè che vengono passati da una famiglia che fa fatica a sfamarli (sono spesso gli ultimi figli) a una donna sterile e che gli farà da madre, pur non essendolo da un punto di vista di legge.
"i bambini generati due volte, dalla povertà di una donna e dalla sterilità dell'altra"
Maria Listru, quindi, ultimogenita, viene ceduta dalla famiglia biologica a Tzia Bonaria Urrai, sarta del paese, che la alleva come figlia con l’obiettivo di assicurarle educazione, istruzione e futuro. E affetto, per quanto la società dell’epoca in quella Sardegna consentisse di esternare.
Maria cresce esattamente così, brava a scuola, bella e intelligente. E perfettamente consapevole della sua situazione di figlia-non figlia.
Nota di quando in quando strane uscite di Tzia Bonaria la notte, ma non ottiene alcun chiarimento nonostante le domande.
Scoprirà poi, dopo la morte di un ragazzo del paese rimasto con una sola gamba a seguito di un incendio appiccato per vendicare un torto, che Tzia Bonaria è l’Accabadora del paese, si occupa cioè di garantire una morte pietosa a chi la chiede perché in condizioni di estremo dolore e impossibilità a proseguire oltre una terribile agonia.
Si tratta di un’opera di carità, non di un omicidio. La morte e la mano che la porta possono essere pietose.
Quando Maria lo scoprirà non lo accetterà, perché “ci sono cose che si fanno e cose che non si fanno”, e questa è una di quelle che non si fanno.
Con l’aiuto della sua insegnante lascia la Sardegna e va a lavorare in una casa privata a Torino. Quando però riceve una lettera che la avvisa che Tzia Bonaria è gravemente ammalata, dopo aver anche perso il lavoro a Torino ritorna in Sardegna e assiste la madre adottiva fino all’ultimo.
Capirà quindi in quel lungo periodo il senso di ciò che fa l’Accabadora, capirà che la morte può essere un gesto di pietà dovuto a chi soffre e lo desidera.
E aveva quindi ragione Tzia Bonaria a dirle “Non dire mai: di quest'acqua io non ne bevo. Potresti trovarti nella tinozza senza manco sapere come ci sei entrata.”
Il romanzo mette sul piatto diversi temi, primo tra tutti quello dell’eutanasia e delle sua implicazioni, tema di stretta attualità. Non faccio qui riflessioni in merito, non sarebbe giusto trattandosi di un tema etico sul quale possono esistere sensibilità diverse. La Murgia spiega e declina bene l’argomento in differenti sue possibili accezioni e non occorre aggiungere altro. Certe sue frasi, anche quando decide di negare una morte perche non sarebbe opera di carità, dicono e insegnano moltissimo, o quantomeno dovrebbero far riflettere. Perché, questo vuol dirci la Murgia, per giudicare occorre comprendere.
Benché non tanto approfondito (non era il tema principale) c’è poi il tema dell’adozione. Maria sa di non essere figlia di Tzia Bonaria, eppure la sente ormai come una madre, colei con la quale confrontarsi sui temi importanti della vita, alla quale si ritorna e per la quale si è importanti. Non gli ultimi, come si è invece sempre sentita Maria.
La scrittura è densa, nessuna parola è usata a caso, alcune aggiungono particolare pathos alla storia.
L’ambientazione è molto bella, la ricostruzione di una Sicilia arretrata e che si forza di progredire è molto ben fatta e ce la sentiamo addosso mentre leggiamo. Non c’è particolare descrittivo o atmosfera che non sia curato, ho apprezzato in particolare quella del lutto.
Cosa non mi è piaciuto? Sicuramente la parte che Maria trascorre in Piemonte. Necessaria ai fini della storia non riesce a mio parere a saldarsi bene al resto, rimane qualcosa che il lettore vorrebbe si concludesse al più presto per tornare alla storia che sente come “vera”, quella in Sardegna. Non so come, ma forse si sarebbe potuta trovare una diversa soluzione.
Inoltre, nonostante sia al centro della storia, il lettore non riesce a sentirsi davvero accanto e solidale alla figura di Maria che ci rimane sempre un po’ staccata da chi lette, non si riesce ad empatizzare con lei. Fredda, forse, non lo so. Di fronte al suo amico di infanzia Andrea Bastiu che, pur nella disperazione per la morte del fratello, le dichiara il suo amore, Maria non riesce ad essere davvero lì con reazioni umane, è invece fredda e compassata come in un rito imposto.
Di fatto il lettore di sente molto più vicino a Tzia Bonaria, vera protagonista pur nella sua apparente freddezza. Ma è una freddezza tutta esteriore: Bonaria è una donna di immensa profondità, sente cosa è giusto e cosa non lo è aldilà di qualsiasi precetto, è comunque attraversata da mille dubbi ma avverte la pietas e agisce di conseguenza.
Ho letto questo libro in due giorni, la storia, salvo la parentesi torinese, è appassionante. Non perfetta, certo, di sicuro una bella storia che chi ha a cuore in modo aperto il tema del fine vita può leggere.
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Ho trovato comunque questo avvincente e scritto in modo interessante aldilà di ciò che non mi è piaciuto.
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Anch'io ho trovato pochissimo riuscita la parte ambientata in Piemonte (la mia regione), ma a dire il vero l'intero romanzo mi è piaciuto poco. Non ho letto altro della nota scrittrice ora purtroppo gravemente malata.