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Aurora
«Il mio nome è la frontiera tra la notte e il giorno, sono margine. Aurora. Aspetto l’alba ma resto nel letto sdraiata, a occhi chiusi. Passiamo troppo tempo in posizione verticale, la testa in alto, i piedi a terra, le spalle curve, le gambe che devono sorreggere tutto. Quando mi sdraio la mia lingua e i miei pensieri si sdraiano dentro di me, le parole cambiano la loro strada abituale, da nord a sud, più lente e imprevedibili. Ci sono storie che si possono raccontare solo da sdraiati, e io resterei ad ascoltarle così, a occhi chiusi. Invece dormire è un’altra cosa, dormire mi terrorizza.»
Aurora non ricorda più cosa significa dormire, lasciarsi cullare dal sonno che ti trascina nella serenità e nella speranza di un riposo sereno. Da fin troppo tempo il suo sonno è disturbato, interrotto, assente, frammentato. Da quel giorno in cui la sua vita si è spezzata, il suo sonno si è spezzato. Per lei che, come da incipit sopra riportato, ha un nome che rappresenta una frontiera tra la notte e il giorno, che aspetta l’alba ma preda della notte, dormire è diventato un vero supplizio. Non ha altra scelta che recarsi in un “centro del sonno”. E dire che non sapeva nemmeno che esistessero. Sono dieci anni che ormai vive a Marsiglia, città dove è approdata quasi per caso ma nella quale è rimasta come attirata da un richiamo, un decennio in cui mai ne aveva sentito parlare nonostante il suo lavoro e le tante relazioni intessute. Tuttavia, qualcosa di strano accade. Si reca all’appuntamento, il medico si professa con tutto il suo distacco, le riferisce che sarà trattenuta in ospedale per una notte nel futuro 28 aprile, le riferisce, con ennesima voce secca e senza via d’uscita, che il suo sonno verrà registrato e alla sua domanda sul se potrà vedersi, conclude che no, questo non sarà possibile perché “potrebbe spaventarsi”. Potrebbe spaventarsi? Di cosa? Perché? Per quale motivo? Cosa c’è di così pauroso e terrificate nel vedersi dormire? Cosa potrebbe scoprire?
È questione di un attimo. Il medico si distrae, quei tre dvd sembrano chiamarla, una mano scatta. Li ha presi, li ha nascosti, se ne va. Sa che è sbagliato, nel profondo lo sa, ma lei deve sapere. Lei. Deve. Sapere. Deve scoprire perché dovrebbe e potrebbe spaventarsi semplicemente del suo dormire ma soprattutto deve sapere se c’è davvero un modo per guarire dalla sua ferita e dalla sua inevitabile e conseguente insonnia.
«”E le lacrime nostre di cosa sono fatte allora?” E mi accorgo che è tanto tempo che non riesco a piangere.
“D’acqua.”
“Ma da dove viene?”
“Dal mare. Non ti sei accorta che sono salate?” E si stropiccia gli occhi cercando di far uscire qualche gocciolina da fami assaggiare.
“Ma come ha fatto il mare a starci negli occhi?”
“Lo porta il vento”.»
È da queste brevi premesse che Arianna Cecconi torna in libreria e con un romanzo altrettanto empatico ed emotivo così come lo era stato il suo romanzo d’esordio “Teresa degli orali” edito sempre per Feltrinelli e di cui la lettura è super consigliata. Arianna torna a parlare di una tematica importante e lo fa per mezzo di una storia che suscita subito empatia poiché un po’ tutti riusciamo a sentirci e immaginarci Aurora. Abbiamo ferite, dolori, bruciature nell’anima che ci bloccano in qualche modo e che ci provocano pensieri, riflessioni, bisogno di sentirsi parte e amati. E vi riesce con una delicatezza unica, per mezzo di una penna e di una prosa che accarezza l’anima.
Aurora è ammaccata, sola, sbucciata, tornare a casa era per lei sinonimo di paura e tristezza. Guarderà quei dvd e da quel momento avrà bisogno di confrontarsi e conoscere quelle persone che vedrà nel video e tramite loro verrà a costruirsi un filo rosso che la porterà a interrogarsi e interrogare ma, forse, anche a trovare la sua serenità.
Perché si chiama Aurora, perché è nata sulla terra, perché ha quarantadue anni e perché proprio a questa età ha imparato che l’aria deve uscire dal naso e non dalla bocca e che in francese rubare e volare, suonare e giocare ma anche mare e madre hanno lo stesso suono.
Perché si chiama Aurora ed è ora di ricominciare.
«In posizione orizzontale le parole sono venute sole e ho ringraziato ognuno di loro come ancora non ho fatto.»