Dettagli Recensione
Quale amore?
…..”Dalla terra, una alla volta, le braccia di Bianca si alzano. Vanno a stringere Pietro. Due corpi piegati sull’ asfalto. Così stretti da sembrarne uno. Dritta, accanto a loro, una sentinella a vegliare sull’ altrove. Jacopo. Restano così. La pioggia li lava”…
Un lungo viaggio, Pietro e Jacopo, padre e figlio, sprazzi di ricordi di una giovinezza perduta in occhi innamorati, ora …” un cinquantenne dalla barba ingrigita, smunto, con la fronte alta, i capelli più radi”…, accanto all’ uomo un ragazzo …” un corpo vuoto, alto, slanciato, bello, con un leggero dondolamento mentre cammina, l’andatura da sonnambulo”….
Un viaggio da condividere in attesa di Bianca ( la madre ), interrotto da un guasto meccanico, una sosta obbligata per qualche giorno a S.Anna del Sannio, …”uno dei tanti paesi di pietra bianca strappata a blocchi dalla terra, una manciata di abitazioni perlopiu’ chiuse, un residuato destinato a sparire per sempre”…, ospiti improvvisati nel bar pensione di Agata, …” i cui occhi sono una specie di lente d’ ingrandimento”…, e dell’ aiutante Gaia, …”un bellissimo sorriso che rivela denti bianchissimi”….
È qui che, spogliato di tutto se non della propria memoria, in un presente che ha bisogno di tempo, circondato da sguardi posati su Jacopo e …. “ la sua presenza vuota”…, Pietro vorrebbe restare in silenzio, rifiutare il dialogo, volgere lo sguardo altrove, inseguito dal proprio dolore, svanita la speranza in un miracolo che non c’è mai stato, annientato dalla rabbia, dai debiti, da una povertà sempre più vera, dall’ assenza di tempo, da anni inserito in una routine che prevede i soliti gesti, i soliti mugugni ( di Jacopo ), una presenza vuota da accudire.
Jacopo è un diciottenne affetto da autismo a basso funzionamento, è afasico e perlopiù dondolante, completamente dipendente, …” è un angelo caduto, non è niente, è come un sasso o un orsacchiotto a grandezza umana, asseconda tutto, capisce niente, vive tutto, ogni volta, come fosse la prima volta”….
Jacopo è un figlio da accudire come un infante, ma come farlo se si considera la propria vita come un film dell’ orrore, visto e rivisto, se non si prova più nulla, odio e rabbia hanno soppiantato dolore e repulsione, una rabbia pronta ad esplodere, se ci si sente vittima di una maledizione, violentati dal destino, regrediti a una vita senza bellezza, giorni e gesti sempre uguale a se’ stessi.
Pietro non sogna più, vorrebbe piangere, sparire, imbrattato di una povertà che gli è implosa dentro, attorcigliato al proprio dolore, …” un bambino invecchiato precocemente”… e a volte…’ il figlio sembra il padre e il padre il figlio”….
Le ore segnano un immobilismo rivolto al passato, scalfiti da attenzioni dimenticate, da un senso di vicinanza, da una sofferenza condivisa, da desideri rinati, da una quotidianità che genera sprazzi di attesa, il presente incollato addosso, quell’ imprevedibile prevedibilità, Jacopo ha bisogno di vicinanza, di attenzioni, di cure, di stabilità, di conservare la propria routine.
Quale versione di Pietro, un uomo precocemente invecchiato e stanco, un padre attento e amorevole custode della fragilità del figlio, un individuo irascibile e rabbioso che ha oltrepassato la soglia, il fantasma di se’ alimentato dalla propria solitudine, una persona fragile e depressa che lancia un grido disperato e rigetta ogni aiuto?
Di tutto un po’, una scelta già definita, la vicinanza di Agata e di Gaia a insinuare dubbi, scalfire certezze, restituire un briciolo di umanità perduta, anche se non pare abbastanza…
Il romanzo di Daniele Mencarelli percuote l’ abisso di un uomo solo ingabbiato in una vita non vita che non ha scelto, se non nel proprio desiderio di paternità, ogni goccia di quotidianità assorbita dalla presenza-assenza di Jacopo.
Un giudizio sommario ci restituisce una scrittura diretta, essenziale, cruda, dialoghi intensi, tratti descrittivi ben delineati, personaggi piuttosto credibili, ma il romanzo rincorre le difficoltà e la rabbia inevasa di un padre solo ad affrontare l’ autismo del figlio.
Una convivenza trasformata nella ferocia di un uomo che si sente abbandonato, dalla famiglia e dalle istituzioni, sopraffatto da se’, da …” una povertà che ti rimane attaccata addosso, che ti perseguita e non se ne va”… , immerso in un incubo, quella che definisce la cosiddetta “ malattia “ del figlio.
Perché è di questo che Pietro ci parla …” sembra un malato, come il figlio ”…, …” la madre ha saputo ricostruire il suo amore attorno alla malattia del figlio, il padre no”… ….“ altre malattie sono battaglie, questa è una specie di maledizione”… …. “ chiedergli quale è la spiegazione della malattia di mio figlio”… ….” prima della malattia, quando la vita era ancora vita”…. e l’ autismo, ahimè, è più volte così definito. Forse si sarebbe potuta restituire maggiore centralità e soggettività alla figura di Jacopo, al suo essere autistico, a una umanità e sofferenza per lo più oggettivate e sottratte, mostrando un’ assenza-presenza e non viceversa, interpretando silenzi, mugugni, sguardi, sussulti, fobie, debolezze, paura, ansia, invece di ribadire continuamente abisso, vuoto, maledizione, assenza, niente, ma sarebbe stata un’ altra storia.
Fermo restando l’ inesauribile carico di responsabilità e l’ impegno, fisico, emozionale, affettivo, economico che assorbe la parte genitoriale oltre a un senso di solitudine, sfinitezza, abbandono, sconforto pienamente condivisibili, di certo tutte queste componenti si defilano al cospetto dell’ inesauribile dono ( parole di Gaia ) e bisogno di amore di un figlio in difficoltà.
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