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Un «miracolo balordo»
«Con trenta omicidi ben pianificati io ti prometto che farei il vuoto, in Italia»: più esplicito e tagliente di così Luciano Bianciardi non poteva essere nel suo capolavoro, La vita agra. La prima parte del capitolo X, il penultimo del volume, si potrebbe definire il manifesto della critica sociale racchiusa nell’opera. Il bersaglio è quel fenomeno che dagli studiosi, dagli storici sociologi economisti, è definito miracolo italiano, il «boom economico» del nostro paese (1958-1962). Innanzitutto, da fine conoscitore della lingua ragiona sull’espressione scelta per definire quel prospero momento del Bel Paese. «Un fenomeno che i più chiamano miracoloso, scordando, pare, che i miracoli veri sono quando si moltiplicano pani e pesci e pile di vino» specifica l’autore. Colui che ha realizzato i miracoli è un «dottorino ebreo, biondo, sui trent’anni», quello a cavallo tra anni Cinquanta e Sessanta non è altro che un «miracolo balordo» perché l’obiettivo di chi muove i fili è soltanto uno: fare insorgere bisogni mai sentiti prima. In una frase Bianciardi descrive, con un dono di sintesi pregevole e illuminato, il capitalismo e quello che l’universo capitalista genera. L’escalation vissuta dal mondo occidentale negli ultimi sessant’anni trova un’anticipazione lungimirante nelle righe che seguono: «Chi non ha l’automobile l’avrà, e poi ne daremo due per famiglia, e poi una a testa, daremo anche un televisore a ciascuno, due televisori, due frigoriferi, due lavatrici automatiche, tre apparecchi radio, il rasoio elettrico, la bilancia da bagno, l’asciugacapelli, il bidet e l’acqua calda». Insomma, riassume quello che è realmente accaduto nella nostra società nella quale, nolenti o volenti, si è sempre portati a possedere qualcosa in più. I «trenta omicidi ben pianificati» promessi dal protagonista del libro all’amico Tacconi si rivelerebbero inutili perché in quel vuoto di potere si inserirebbero automaticamente altri specialisti della dirigenza e i problemi si ripresenterebbero puntuali. Ecco quindi che Bianciardi prospetta una rivoluzione che deve necessariamente partire «in interiore homine». Le pagine che seguono sono utopistiche e riportano allo stato di natura, ma esprimono bene la sua insoddisfazione per la vita agra che lo circonda. Da dentro noi stessi si possono ricavare le forze per un mondo differente.
L’analisi del capitolo X è figlia di quelle che sono le premesse che hanno spinto l’autore a cimentarsi nella stesura di questo romanzo un po’ sui generis. Si è spinto a scrivere perché doveva raccontare la sua storia da emigrato, trasferitosi dalla Toscana, precisamente dalla Maremma, a Milano in cerca di riscatto nel segno dell’amico Otello. Il riscatto ricercato non è personale: l’obiettivo è invece riscattare le quarantatré vittime del disastro della cava mineraria in Val di Cecina. Un incidente evitabile che invece si verificò perché in quella miniera (così come in moltissimi altri posti di lavoro da Nord a Sud) «non era storia di rapporti tra uomo e uomo, fra operaio e dirigente e ditta, ma fra uomo, giorno e tonnellata»; tutto ruotava intorno alla produzione, non esisteva nient’altro nemmeno il pericolo di un’imminente strage. Il riscatto è quindi quello di andare a Milano davanti al «torracchione di vetro e di cemento», sede della direzione della cava, dove seguivano la pratica degli assegni assistenziali da 500mila lire e da un milione da destinare alle famiglie dei quarantatré morti. «La missione mia era questa: far saltare tutti e quattro i palazzi e, in ipotesi secondaria occuparli, sbattere fuori le circa duemila persone che ci lavoravano, chine sul fatturato, sui disegni tecnici e sui testi delle umane relazioni, e poi tenerli a disposizione di altra gente» scrive Bianciardi.
Il volume è fortemente autobiografico. Le vicende del protagonista coincidono in molti passaggi con le vicende esistenziali di Bianciardi. Dal trasferimento dalla Toscana a Milano alle vicende sentimentali (una moglie lasciata con prole in centro Italia, Mara nel libro, e una nuova compagna nella città lombarda, Anna) fino all’attività da traduttore sono tutti elementi che hanno riguardato lo scrittore. La Milano descritta è tetra, trafficata, caotica, triste e spoglia di umanità. Le immagini concrete che si stagliano indelebili nella mente del lettore sono parecchie. La prima, a parer mio, è quella degli operai limatori di ghisa con le mani che arrivavano ogni mattina alle sei con i «treni del sonno»; gente invisibile che non riuscivi a incontrare perché come arrivavano, dopo la giornata di lavoro scomparivano. La seconda riguarda la città stessa avvolta da una nebbia talmente fitta che le persone potevano essere incontrate soltanto nel cono di luce sporca dei lampioni; non erano tuttavia persone, bensì «qualche larva imbacuccata e frettolosa che scantonava verso casa fra lo sfrecciare delle automobili nere». Questa descrizione e molte altre fanno de La vita agra un grande affresco in grado di far percepire al lettore l’atmosfera meneghina di quel periodo. Personalmente ritengo proprio questa peculiarità uno dei principali punti di forza del volume: Bianciardi con la sua penna ti fa talmente immergere che risulta difficile distaccarsi dalla pagina e si tende a procedere speditamente nella lettura (alle volte anche troppo tenendo conto dei concetti alti espressi che meriterebbero un’attenta riflessione). La terza immagine indelebile riguarda la gita in tram quotidiana, «un viaggio in compagnia di estranei che non si parlano, anzi nemici che si odiano»; il protagonista/autore cataloga tre tipi fondamentali di faccia: la faccia del ragioniere in camicia bianca, la faccia disfatta della casalinga e la faccia smunta, stirata e alacre della dattilografa con le gambette secche. Molte altre istantanee si susseguono nel libro, come quella delle commesse del market.
Un’ultima riflessione però la merita la tematica della morte che viene affrontata in modo coraggioso da Bianciardi. «E tu stai lì, tranquillo, senza sentire niente, senza dovere fare niente, perché ormai tocca tutto agli altri. Ecco perché sorridi». E ancora: «Io, lo giuro, non ho paura della morte, ma l’agonia sì, mi fa paura... Poi, appena morto, lo vedete distendersi, riposare, e sorridere ironico. Ora - così par che dica - arrivederci a tutti e sotto voialtri, io stavolta vado in pensione sul serio». Prima, però, secondo Bianciardi è necessario un funerale come si deve, non come è occorso al suo amico Enzo, uno che voleva campare, conoscere la gente, andarci d’accordo; il giorno del funerale, tuttavia, si ritrovarono pochi intimi e il traffico intorno continuava imperterrito e indifferente. Queste riflessioni sono state fatte da un autore che purtroppo è scomparso quando non aveva ancora compiuto cinquant’anni. Nel suo percorso letterario La vita agra è riconosciuta come pietra miliare e resta a distanza di sessant’anni dalla prima pubblicazione del 1962 un incomparabile sguardo delle conseguenze umane e sociali del miracolo economico italiano.
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Commenti
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Credo che sia l'anno giusto. A novembre uscirà il volume sul racconto de La solita zuppa che ripercorre tutta la vicenda editoriale. Sono molto curioso di leggerlo.
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Non ho mai letto il noto autore, però m'incuriosisce.