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Una sola parola
"In questa corsa sfrenata che mi ritrovo a compiere, dietro una preda sconosciuta, con buona probabilità inesistente, ho incrociato uomini inchiodati alla loro versione dei fatti. Ho conosciuto vecchi vivere dentro un tempo passato, morto, loro e la foto in bianco e nero di Mussolini, tenuta nel portafogli come reliquia da onorare col pianto, offerta agli occhi altrui come soluzione di ogni male, di questo paese, del mondo intero. Ho visto tanti ragazzi, miei coetanei, vivere anche loro in un tempo passato, morto, a idolatrare guerriglieri disegnati sulle pareti dei centri sociali, a venerare teorie economiche come testi sacri, a credere ciecamente che tutto cambierà grazie all’odio verso il potere e chi lo rappresenta, il disordine come soluzione finale. Io ho creduto a tutto, poi ho rinnegato. Mi sono ferito con tutta la vita che potevo, per giungere qui, ora, con una sola certezza da difendere. Tutto quello che ho vissuto, tanto o poco che sia, non è la preda che cerco." Perché oggi una persona che si interroga sul senso della vita, sulla morte, su Dio, viene subito etichettata come depressa, disturbata, bisognosa di cure? Perché il concetto di disturbo mentale si è diffuso a tal punto da far passare per stranezze o addirittura per patologie quelle che semplicemente sono delle caratteristiche, se non delle virtù, dell'individuo? Questi sono gli interrogativi che il protagonista Daniele pone ai lettori di questo piccolo gioiello letterario, scritto in maniera semplice, ricorrendo spesso alla parlata popolare romanesca, ma ricco di carica emotiva, pieno di profondi spunti di riflessione, lineare nel racconto grazie ad una scala temporale dettata da una divisione in capitoli in base ai giorni, a mo' di diario, con necessarie incursioni nel passato. Sottoposto al regime di trattamento sanitario obbligatorio in seguito a una violenta crisi di rabbia, il ventenne si ritrova rinchiuso in una piccola e afosa stanza di una struttura ospedaliera romana in compagnia di altri sconosciuti costretti, come lui, a questo soggiorno coatto. È il giugno del 1994, l'Italia di Arrigo Sacchi, impegnata nel mondiale americano, tiene tutto il paese con il fiato sospeso. Tra le calde mura del reparto ospedaliero si intrecciano, per sette lunghi giorni, le vite del protagonista e dei suoi sventurati compagni. Storie diverse, disturbi differenti, caratteri contrapposti ma il destino comune di chi viene etichettato come malato, marchiato come pazzo, emarginato da una società che non vuole curare, ma depurare, purgare, senza fare alcuna distinzione tra la follia cattiva, distruttiva, e quella buona, costruttiva. Una convivenza forzata che nasce nella paura, nel rifiuto, nella negazione, per diventare presto legame, empatia, amicizia. "Sono i cinque pazzi con cui ho condiviso la stanza e questa settimana della mia vita. Con loro non ho avuto possibilità di mentire, di recitare la parte del perfetto, mi hanno accolto per quello che sono, per la mia natura così simile alla loro. Con loro ho parlato di malattia, di Dio e di morte, del tempo e della bellezza, senza dovermi sentire giudicato, analizzato. Come mai avevo fatto prima. Quei cinque pazzi sono la cosa più simile all’amicizia che abbia mai incontrato, di più, sono fratelli offerti dalla vita, trovati sulla stessa barca, in mezzo alla medesima tempesta, tra pazzia e qualche altra cosa che un giorno saprò nominare. Dal corridoio mi fermo a guardarli. Eccoli, ognuno nel proprio angolo di stanza, indifesi di fronte alla propria condizione, di esposti alle intemperie, di uomini nudi abbracciati alla vita, schiacciati da un male ricevuto in dono. I miei fratelli." Uomini feriti, spaventati dalla vita, affidati spesso alle cure di medici che hanno perso la vocazione e ad una scienza che appare sempre più sicura nella cura del corpo umano e che invece sembra ancora procedere a tentoni quando si parla di cura della mente: "stiamo ancora al tempo della stregoneria, sono mutati i riti, le formule magiche, le erbe sono diventate pasticche, ma la verità è che la medicina brancola nel buio, magari domani si svegliano e ci dicono che la malattia che ci avevano affibbiato non è così certa, che il meccanismo d'azione di questa o quella cosa non è come avevano sempre pensato." Una scienza miope che, agli occhi del gruppo, sbaglia il concetto di partenza nella valutazione di cosa sia il mondo, l'essere umano, arrivando a catalogare come sintomi di qualche patologia dei semplici modi di essere, di percepire le emozioni, di affrontare la vita. Può essere definito malato un ragazzo come Daniele se si trova a pensare che siamo tutti degli equilibristi, che in un attimo smettiamo di respirare e ci ritroviamo dentro una bara, che il tempo è soltanto un "insulto"? È così strano, per un ragazzo di vent'anni, non riuscire a trovare le parole per esprimere ciò di cui ha veramente bisogno e ritrovarsi a procedere al contrario, togliendo ogni giorno una parola, sfilando piano piano le meno necessarie, accorciando, potando, ripulendo dal superfluo, fino a lasciarne solo una, l'unica che veramente serve, la sola che può dare un senso a tutto? Quale può essere il termine che per Daniele indica la via, l'obiettivo, che giustifica l'esistenza, che motiva ogni affanno? ”Una parola per dire quello che voglio veramente, questa cosa che mi porto dalla nascita, prima della nascita, che mi segue come un’ombra, stesa sempre al mio fianco. Salvezza. Questa parola non la dico a nessuno oltre me. Ma la parola eccola, e con lei il suo significato più grande della morte. Salvezza. Per me. Per mia madre all’altro capo del telefono. Per tutti i figli e tutte le madri. E i padri. E tutti i fratelli di tutti i tempi passati e futuri. La mia malattia si chiama salvezza, ma come? A chi dirlo?"
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E' un libro che da tempo ho in lista. Penso che l'autore sia uno scrittore interessante.