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Mimì e la sua Milanese
«Scoprii in quella circostanza che la bambina dei miei pensieri e sospiri si chiamava a quel modo oscuro – la milanese – e aveva attirato, oltre alla mia attenzione, anche quella di molti altri compagni. Non solo. Era di dominio pubblico che, quando c’era il sole, la guardavo scimunito dalla finestra o passavo molto temo sotto il suo portone. Vero? Mi chiusi nel mio solito mutismo, ma prima gli dissi: vafanculostrunznunmeromperocàazz, che era la formula necessaria quando nessuno pareva adatto a capire quale persona speciale fossi e che grandi cose avrei fatto.»
Napoli. Mimì, presuntivamente diminutivo di Domenico, fa capolino tra le pagine con i suoi nove anni e la sua fantasia. La vede per la prima volta in un giorno come tanti danzare. È lì, davanti al balcone di casa sua, che danza. Danza con la grazia che i suoi occhi sanno vedere e parla in un modo incantevole ed elegante di un italiano non intriso di carenza campana. Se ne innamora, ora e subito. Subito ed ora. È la sua musa, la sua fata. Deve salvarla, proteggerla, tutelarla. Si ripromette di salvarla anche dopo la sua morte esattamente come provò a fare Orfeo con Euridice (Mimì ha l’obiettivo di non girarsi, però, fino all’ultimo). Il bambino è ossessionato dall’idea della morte, forse a causa della nonna vedova dopo due anni di matrimonio che gli parla della fossa dei morti ove i defunti sono soliti raccogliersi, forse per quei miti che lo incuriosiscono. E questa è una parte anche estremamente interessante, infatti, il lettore è coinvolto dalle dinamiche dei giochi tra bambini, da questa fascinazione e anche dalla figura stessa della nonna che conquista e scalda il cuore con la sua perfezione nell’imperfezione. Ma si sa, la vita non è perfetta e ci sarà un evento scatenante che porterà alla conclusione dell’infanzia del protagonista ma che troverà, di poi, fondamento e spiegazione solo nell’età adulta quando egli sarà un giovane studente universitario di Lettere antiche.
«“[…] lo feci con passione senza pretese, sapendo ormai che quel poco di veramente vivo che facciamo vivendo resta fuori dalla scrittura […]”.»
Tanti sono i temi trattati da Starnone tra queste pagine. Temi che riguardano l’amore e i legami familiari, temi che rimandano a Lacci. Ma tra i protagonisti indiscussi vi è certamente la morte. Morte che accompagna tutte le pagine, morte che accompagna la nostra vita come una consapevolezza pari a una spada di Damocle.
È nella semplicità che vince “Vita mortale e immortale della bambina di Milano”. Mimì è un bambino come tanti, con una infanzia normale, come tutti. E poi c’è quel bisogno di vita ed esistenza, quel bisogno di pienezza dato dalle esperienze vissute quasi per casi e caso. “La milanese” per il giovane è il primo amore. È emozione pura, ingenua, elementare, atavica come ogni esperienza giovanile sa essere. Molto più difficile è per lui “capire” ciò che si vuole e… lasciare andare.
La morte non tarda a farsi attendere, è uno spettro sempre presente che non teme di abbracciare la sua vittima e la vita chiede che si facciano i conti con questa. Non se ne può fare a meno. Anche quando si cerca di evitare che sia così, anche quando si cerca di fare in modo di eludere il dato, la realtà. Ed è qui che subentra il mito, la letteratura.
Alcuni passaggi in napoletano non sono semplici da leggere se non si è del luogo ma lo stile e il contenuto sanno trattenere il lettore senza troppe difficoltà.
Ed è la stessa chiave metaletteraria la chiave di lettura di questo piccolo ma consistente romanzo. Perché lì dove finisce la vita, la speranza, l’idea di sopravvivenza, ecco che subentra l’arte, la parola, l’attimo. L’emozione.