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QUANDO LA PATRIA CHIAMA
“Non avrei mai pensato che il servizio militare si insinuasse nella mia esistenza scrostando piacevolmente immagini ed emozioni del tutto dimenticate e che riviste oggi appaiono così perdute da ricercarle con passione e accanimento, da studiarle, rivederle, riassorbirle. Tutto in me si muove come se questa del soldato e della sua partenza fosse una storia antichissima e remota incisa nel D.N.A., un codice collettivo che quando scatta decifra e informa tutto il tuo self. Non l'avrei creduto. Avevo terrore di tante situazioni e invece anche questi attimi mi appagano. […] Ora so che c'è qualcosa che vibra anche dentro di me e che riannoda il senso mio con quello circostante. Non so dire precisamente di cosa si tratti, ma è qualcosa che non mi separa e soprattutto non mi divide.”
Ricordo che quando, verso la metà degli anni ’80, poco più che ventenne, prestai il servizio militare come artigliere, “Pao Pao” di Pier Vittorio Tondelli, uscito da non più di tre anni, era un libro abbastanza popolare nelle caserme. In effetti, il mondo della naja, pur essendo all’epoca un passaggio obbligato nella vita di ogni giovane maschio italiano, non aveva, per quanto mi risulta, mai avuto prima di allora diritto di cittadinanza nella letteratura nazionale contemporanea. Inoltre, in quei fatidici anni Ottanta in cui in ogni campo artistico (dalla musica al cinema) le giovani generazioni stavano cercando di soppiantare le vecchie, Tondelli si era proposto come l’alfiere di una nuova narrativa che cercava di svecchiare, tanto nelle tematiche quanto nel pubblico di riferimento, le forme letterarie tradizionali (in una tavola rotonda di circa 35 anni fa, contrapposto a scrittori più anziani, aveva detto: “Per me è giovane scrittore chi ha a che fare con l’universo dei comportamenti giovanili, fatto di determinate riviste, di musica rock, di originali esperienze culturali e di vita… Se scrivi di giovani e li rappresenti, sei un giovane scrittore”). Ho fatto questa lunga premessa per dire che, all’epoca, mi pentii non poco di non aver letto il romanzo di Tondelli, in quanto avrei potuto ritrovare nelle sue pagine tutte quelle particolarissime esperienze e sensazioni, non sempre positive, che la naja era in grado di offrire (il vago ma costante senso di assurdità della vita di caserma, la promiscuità, il nonnismo, le notti intere passate a fare la guardia a polveriere letteralmente sperdute in mezzo al nulla, il freddo d’inverno e le zanzare d’estate, la nostalgia di casa, la babele linguistica di commilitoni provenienti da ogni parte d’Italia, gli appelli e i contrappelli, le marce e i picchetti). Ho voluto recuperare questo breve libretto a distanza di tanti anni un po’ per tornare con la memoria ai ricordi lontani della mia giovinezza, ma anche come un atto di tardivo (anzi postumo, dal momento che Tondelli è scomparso, giovanissimo, all’inizio degli anni Novanta) riconoscimento nei confronti di uno scrittore coraggioso e anticonformista. Non vi ho trovato, come avevo pensato, un racconto di formazione vero e proprio (la naja come un rito di passaggio, nel bene e nel male, dall’adolescenza alla maturità) e neppure il ritratto corale di una generazione (anche la descrizione della vita del militare di leva non ha, a dire il vero, una parte preponderante, nonostante il titolo e la sinossi in copertina), ma piuttosto un’elegia molto sui generis di quell’età magica che, pur tra alti e bassi (leggi: droga), è innervata da una sfrenata vitalità che nessuna regola e nessun sistema può imbrigliare. “Pao Pao” è un libro felicemente anarchico che parla di tutte quelle esperienze e di tutti quegli incontri, unici e irripetibili (quelle “occasioni della vita”, per dirla con le parole dello scrittore emiliano, che “si schiudono ogni tanto a dar sollievo a questo nostro pauroso vagare per sentieri che non conosciamo”), che l’anno di militare, bizzarra e financo grottesca parentesi della vita, incuneata tra la scuola e il lavoro, garantiva ai ragazzi del secolo scorso.
Lo stile di Tondelli merita qualche parola a parte. Egli sa dare alle sue frasi una straordinaria impressione di freschezza, di spontaneità, di vita vissuta, pur senza ricorrere quasi mai alle facili scorciatoie del vernacolo o dello slang giovanilistico. I suoi periodi spesso partono per così dire in minore e progressivamente crescono e si gonfiano in una spassosissima, inarrestabile, logorroica successione di invenzioni linguistiche, in cui la ridondanza non è mai tautologia ma libero e felice estro lessicale. Tondelli ammaestra le parole e, come un domatore con delle belve feroci, le riconduce a una stupefacente docilità. Fatte le debite e ovvie proporzioni, a me ha ricordato alla lontana lo stile di un altro outsider della letteratura del secolo scorso, J. D. Salinger.
Peccato che, al di là di queste invenzioni linguistiche, “Pao Pao” si perda alla lunga in una successione un po’ caotica e dispersiva di serate goliardiche passate, tra un’osteria e l’altra, a ubriacarsi e sballarsi di canne e, soprattutto, di amori (rigorosamente omosessuali) tanto folgoranti e sublimi quanto strazianti e disperati, nonostante che Tondelli cerchi in ogni modo di saldare la frammentarietà delle tante storie e dei tanti personaggi in un unico percorso esistenziale (“e allora, nonostante i dolori e le precarietà dei nostri anni giovanili la vita sembra rivelarsi come una misteriosa e armonica frequenza che schiude il senso e fa capire”). Probabilmente “Pao Pao” non è il lavoro più significativo della produzione, purtroppo esigua (interrotta com’è stata dalla morte prematura di AIDS) di Pier Vittorio Tondelli, probabilmente è da “Altri libertini” e “Camere separate” che bisognerebbe partire per affrontare al meglio il suo universo, ma questo romanzo si fa ugualmente leggere ed apprezzare ancora oggi per le sue doti di esuberanza narrativa e di originalità stilistica.
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