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Chi sono davvero gli spatriati?
I premi letterari sono una chicca per i lettori, da sempre. Sono un modo per scoprire nuovi scritti, sono un modo per riuscire anche a conoscere nuovi volti del panorama letterario da poi, magari, riscoprire ancora una volta anni dopo quali autori, perché no, pluri-affermati con successi e successi alle spalle. Tuttavia, negli ultimi anni, sono proprio i premi letterari ad aver perso maggiormente di forma, forza e intensità. Come se la stessa lingua italiana si fosse adattata e piegata a un nuovo uso e una nuova conoscenza del pubblico medio, più consuetudinario e meno formale, meno erudito e meno incline alla scelta del testo complesso prediligendo quello più “preconfezionato”.
Piccola ma doverosa premessa che ci porta a “Spatriati” di Mario Desiati, opera interessante per gli intenti, parzialmente riuscita nella trama e nel contenuto, formalmente dubitante di se stessa.
Già in “Candore”, classe 2016, ad essere oggetto di trattazione erano stati i corpi, la loro scoperta, la loro riaffermazione. Corpi mixati a pensieri e parole, a uomini che hanno varcato la soglia delle fatidiche quaranta candeline, corpi che si immaginano sposati e consci delle loro responsabilità ma che si dimostrano l’esatto opposto. In Spatriati a incontrarsi sono Claudia e Francesco, a scuola. Lei che si veste da uomo con cravatte e abiti dissonanti con l’epoca attuale, lui con i suoi perché, il suo essere ramengo.
È bene premettere che siamo innanzi a un romanzo volontariamente e chiaramente di autofiction che, per molti aspetti, ricorda la Durastanti con la sua “La straniera”. Ecco, dunque, che la scena si apre con i genitori dei due giovani e il sospetto di una presunta relazione coniugale in cui si ipotizza che il padre di Claudia sia l’amante del padre di Francesco. Nasce dal pettegolezzo il loro legame. Per lei che già si è spostata nel milanese è diverso vivere rispetto a lui e alla realtà di Martina Franca, governata dalla maldicenza
«Di forza per reagire non ne avevo, non rispondevo, ma mi alzavo e me ne andavo, sperando di trasmettere almeno un po’ del fastidio che Claudia avrebbe provato a sentire quei discorsi.»
È possibile uscire da quel piccolo Mondo? Berlino può essere davvero una via d’uscita? Quale strada scegliere? Essere tra coloro che restano e pagano le bollette perché mai si farebbero mantenere da amici e conoscenti berlinesi o scappare, essere tra chi vive dell’avventura, ma solo per raccontarne a chi resta? Chi sono davvero gli spatriati? Sono i senza casa, i senza radici, i disorientati, i ramenghi, sono coloro che se ne vanno davvero o sono coloro che si avvicendano per l’Europa o nel mondo da qualche amico ma per poi tornare, inevitabilmente a casa? Un po’ come quel leitmotiv mencherealliano che ci ricorda il sempre tornare, perché costoro tornano sempre. Non siamo, forse, alla fine un po’ tutti spatriati? Sia chi parte che chi resta?
Tante le premesse, tante le idee, tanti i punti da voler affrontare in un testo che però solo parzialmente arriva. Sia perché a prevalere è un po’ troppo l’autofiction, sia perché a governare queste pagine sono personaggi che arrivano solo in parte, che non coinvolgono pienamente, che sono caratterizzati da un non riuscire a trattenere. A ciò si aggiunge lo stile troppo costruito, poco naturale, artefatto. Un libro che si prefigge di raggiungere i più ma che nel concreto non riesce a lasciare molto e che per questo rischia anche di far dubitare dei premi letterari.
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Commenti
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Un abbraccio Maria
Personalmente ne ho avuto prova nel 2018, allorquando il bellissimo "La Corsara" di Sandra Petrignani venne scalzato dal modesto libro di Helena Janeczek "La ragazza con la leica".
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Ero indecisa se dare una possibilità a questo titolo vincitore ma credo che passerò avanti.