Dettagli Recensione
Polvere pirica bagnata
Premio Campiello del 1990, “La lunga vita di Marianna Ucrìa” è un romanzo storico che ruota intorno a due protagoniste: Marianna Ucrìa e Palermo con l’appendice della vallata di Bagheria che nel Settecento vide l’edificazione di maestose dimore in stile barocco. Fra queste, la villa Valguarnera ultimata a fine secolo dalla protagonista di questo romanzo, Marianna Alliata Valguarnera. Una principessa, nella realtà storica, costretta al matrimonio con lo zio che aveva abusato di lei bambina, il fratello del padre, l’uomo ideale per non disperdere, dopo la prematura scomparsa del principe, il patrimonio familiare, in assenza di figli maschi.
Dacia Maraini, è una discendente, per parte di madre, di questa sfortunata donna caratterizzata da una sordità testimoniata anche da un misterioso ritratto, ora introvabile, descritto in “Bagheria” che vede la nobildonna ritratta con dei fogli in mano, utili per gli scambi comunicativi tra lei e gli altri.
La Marianna del romanzo nasce quindi sulla falsariga di questa storia familiare ed è il mezzo per poter rappresentare il mondo siciliano ancora caratterizzato da feudalesimo e Inquisizione mentre i lumi del secolo paiono appena sfiorarla. Lei sarà, nel pieno della sua maturità di donna, il simbolo, con le sue scelte, di un nuovo riscatto ispirato alla piena espressione di sé in quanto donna, libera ormai dei subdoli legami che la tradizione culturale le aveva imposto. Lei lettrice avida di Pascal, Hume, Voltaire, Montesquieu.
La conosciamo però ancora bambina, molto legata al padre e con una mamma indolente, mentre assiste alla pubblica impiccagione di un ragazzino nella piazza antistante al palazzo Steri. Avendolo recentemente visitato e avendo ancora impressi i graffiti degli orrori presenti nelle diverse sale usate per anni dall’Inquisizione, sono stata incantata da tutta questa primissima parte come da tutto il reticolato geografico della città che emerge di volta in volta nel corso della narrazione. Immagino che per un lettore palermitano ciò aggiunga ulteriore valore all’opera che, ricordiamolo, è appunto un romanzo storico.
Marianna è stata portata ad assistere al macabro spettacolo che è festa di piazza irrorata di zammù e arricchita da ‘pani câ meusa’ nel vano tentativo di procurarle uno spavento tale da poterle restituire la parola. Lei è infatti ‘mutola’ ma non dalla nascita, c’è stato qualcosa nella sua infanzia, uno spavento più grosso, che l’ha resa tale, il padre a questo deve rimediare, come se fosse una colpa sua. Tutta la narrazione è filtrata dai pensieri di Marianna che legge la realtà circostante acuendo i sensi a sua disposizione e, inverosimilmente, riuscendo alcune volte a leggere i pensieri altrui. Questa a me è parsa una forzatura sul piano della verosimiglianza ma devo riconoscere che permette comunque di impreziosire la narrazione inserendo altri punti di vista. Ho trovato improbabile anche che un mutismo selettivo sia stato clinicamente accostato alla sordità, le due condizioni non sono affatto interdipendenti, insomma se la bambina è diventata muta per uno spavento non necessariamente avrebbe dovuto perdere l’udito.
Ben presto, a soli tredici anni, Marianna, ancora ‘mutola’ è costretta al matrimonio con il fratello del padre e a una vita matrimoniale caratterizzata dal sopruso sessuale, dai ripetuti parti in cerca dell’erede maschio, dai canonici lutti causati dalle pessime condizioni sanitarie che, con i vari intervalli epidemiologici, rendono fragile l’esistenza soprattutto della figliolanza. Unica possibilità di vita arriva dalla lettura, dalla conoscenza e dal saper lentamente applicare i principi egualitari nella sua piccola dimensione familiare. Una svolta narrativa, in termini di crescita personale, si registra in concomitanza con lo stato di vedovanza ( a proposito, molte belle le pagine dedicate alle catacombe dei Cappuccini, purtroppo ancora chiuse ai visitatori in questo aprile, dove viene mummificato il corpo del consorte - zio ) e la scoperta della propria identità sessuale: ancora una volta però lo stile della Maraini nella rappresentazione dell’intimità non mi piace, come già era accaduto in “L’età del malessere”, troppo esplicita, cruda e desolante.
Per concludere una lettura gradevole nonostante una narrazione troppo dilungata e un pathos che dovrebbe naturalmente scaturire dalle rivelazioni finali smorzatoinvece da una scelta stilistica sbagliata (inverosimiglianza scarìturita dalla lettura del pensiero) la quale determina l’effetto della polvere pirica bagnata dentro un fuoco d’artificio.
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Feci un po' di fatica in alcuni punti, ma sono passati tanti anni ed ho masticato tanta letteratura, chissà se ne trarrei altra impressione ora...