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Michele, caro Michele
«Ne ho rimorso. Ma è vero che a un certo punto della nostra vita i rimorsi li inzuppiamo nel caffè la mattina come biscotti.»
Corre l’anno 1973 quando Natalia Ginzburg osserva, ripete, riporta. Dolori, anime, pensieri. Un grigio realismo con cui viene trattenuto e dipinto il vivere di una realtà borghese fatta di anime e pensieri stratificati tra loro. Ecco allora che il realismo prende forza e campo, che i personaggi di questo titolo non vanno “né avanti, né indietro” che l’umanità si cristallizza in piccole azioni del quotidiano in un ricostruirsi di schegge e frammenti, in un puzzle che prende forma sino al dramma finale.
E cos’è, se non la solitudine, ciò che respira ogni singola voce tra queste pagine? In un silenzio che lascia grida inutili di impotente desolazione.
Ed è a Michele che avviene la confessione. Una confessione fatta di una esistenza appassita ed orfana, una confessione che vede un figlio sbandato e balordo che fugge per motivi politici essendo un po’ compromesso in moti di estrema sinistra in questi anni agitati ma di fatto senza veramente sapere un perché. Adriana sa di non essergli stata davvero madre. Se lo ripete e glielo confida, fa proprio quel moto malinconico, quella solitudine di una separazione con il marito e con un senso di non appartenenza che nel ripetere a lui, ricorda a se stessa. Sta a Londra adesso Michele. Ed è qui che sono destinate le lettere dall’Italia. Lettere ad alcune delle quali risponde e che delineano un quadro complesso sia dal punto di vista psicologico che umano.
Michele altro non è che il canale che ricostruisce la narrazione, che riporta a galla una rete, che è destinatario di flussi di vita che nemmeno sempre lo riguardano. Tanto che potrebbe dirsi non essere nemmeno il vero protagonista dell’opera, Michele. A queste voci si sommano anche le sorelle di Michele quali Angelica, che gli vuol bene seppur le sue complicazioni affettive, c’è Mara, donna semplice e c’è Osvaldo, amico si vecchia data, o forse qualcosa di più, c’è Ada, l’efficiente ma pratica moglie separata.
Il racconto si apre nel dicembre del 1970 e si chiude nel 1971, accompagna i lettori tra caldo e freddo, a far da teatro e scenario è solo la memoria. Ancora una volta a essere narrato non è il presente quanto un passato che non lo è mai davvero. Ed è l’anno 1973 quando questo romanzo in forma epistolare “misto”, misto essendo le missive alternate da un narrare e narrato in terza persona, che fonde il raccordo dell’avvenire con la gergalità della missiva, prende forma e riconferma le grandi capacità della romanziera. Una lettura che lascia il segno.
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Un libro letto parecchi anni fa. Ricordo che non mi piacque particolarmente. Io preferisco la Ginzburg delle raccolte di piccoli saggi, che sono spesso bellissime pagine letterarie : "Le piccole virtù" ; "Mai devi domandarmi" .