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Miriam & Diego e il mondo dentro e fuori
«Negli occhi nerissimi teneva il coraggio che l’aiutava a campare fuori, nel rione e per le strade di periferia nell’esistenza precaria di ogni giorno, in quegli occhi Miki riconobbe il suo stesso convincimento, quello che tocca agli sfortunati: che l’altro sia il nemico da sconfiggere, e che dentro ogni essere umano ci sia un diavolo impossibile da estirpare. E sentì ancora una volta di trovarsi dalla parte sbagliata, lui prigioniero come lei, anche se in maniera diversa, prigioniero del suo lavoro, del passato, della famiglia, dei muri che la vita, il carceriere più crudele, gli aveva alzato attorno, della diffidenza costante che consuma e ti fa triste, solo, e morto, quella diffidenza che spesso basta a giustificare l’inganno altrui, perché chi in nessuno crede da nessuno verrà creduto.»
Il suo nome è Miriam. È una giovane e bella donna dagli occhi scuri e il carattere forte che mai mostra la sua fragilità al mondo che la circonda. Anche adesso, ancor più adesso. Adesso che la sua vita è approdata in un Icam, Istituto di detenzione attenuata, insieme a Diego il figlio di nove anni. La condanna, detenzione illegale d’armi, per proteggere forse altri, quel padre ancora più assente di cui il figlio ha ben poco ricordo. Diego che di anni ne ha nove e che non ha artigli per difendersi in quel mondo fatto di rione e strade, Diego che è troppo buono per il quartiere napoletano in cui è cresciuto e in cui è stato deriso per i suoi piedi piatti, gli occhiali e la pancia. Diego che tra queste mura cambia, cresce, acquista sicurezza in sé, Diego che impara a sua volta l’universo delle parole che la cara Melina annota e trascrive perché le “parole belle” devono essere custodite, Diego che muta volto, forma e faccia perché in quel mondo fuori ci deve ritornare. Lui che già conosce l’esclusione e l’isolamento. E ancora Miriam che non riesce a fidarsi del prossimo, soprattutto degli uomini. Che sente una morsa strapparle il respiro ogni volta che sente l’occhio maschile sul proprio corpo, Miram che non può mostrarsi debole e ancor meno può cedere. Miriam che non si fida e ancor meno affida. Una madre che cerca di tirar su forte e duro quel figlio che, al contrario, sorride a chi incontra perché nelle persone vede il buono.
«[…] Giacomo si chiese se l’accesso di rabbia che l’aveva pervaso non fosse solo invidia per Gramigna, che s’era liberato del desiderio di vivere, che rende inevitabilmente schiavi.»
E così, pagina dopo pagina, impariamo i ritmi di una vita dietro le sbarre. Una vita fatta da una parvenza di quotidianità, una vita tra divani e sbarre alla finestra perché pur sempre una condanna deve essere scontata. Ed ancora Melina che è una bambina fragile che ama le “parole belle”, le annota e cerca un ordine per quel mondo così disordinato e caotico. Ancora Amina fuggita dalla Nigeria che la vuole schiava. E Dragana che nei pensieri belli non riesce a credere. Anime devastate a cui si affiancano altrettante rose dai propri incubi. Tra queste vi è Miki, abbreviazione di Michele, che con la sua Tilde divide la vita ma che è schiacciato tra demone e desiderio, Greta con la sua ferita che non sembra aver ancora trovato una cura, Antonia che rifugge dalla monotonia. E Giacomo che rappresenta il confine tra mondo di fuori e mondo di dentro.
«[…] Capitava spesso negli ultimi tempi che la tristezza scendesse improvvisa sulle cose, a rubarsi il sorriso della mamma e il buonumore suo, allora in quelle occasioni lui strizzava gli occhi e provava a immaginarsi lontano, sul camion del babbo, a percorrere con lui una strada dritta in un giorno di festa, il vento d’estate che entrava dai finestrini, e suo padre allegro che mordeva un panino alla mortadella tenendo il grosso volante con una sola mano.»
Nato dall’esperienza diretta occorsa nel 2021 dall’autore in un Icam in provincia di Avellino (Icam di Lauro), “Le madri non dormono mai” è uno scritto meditato e cadenzato in cui si è protagonisti e non solo spettatori. Si cerca lo stesso abbraccio nell’altro, si cerca la possibilità di fidarsi e affidarsi, si osserva il paradosso del “mostro” che è sempre in agguato, pronto a coglierti di sorpresa. C’è ancora Napoli con i suoi paradossi fatti di arroganza, violenza e mancanza di opportunità mixata a una cordialità corale. C’è un dolore misto a speranza, ci sono silenzi che sono pause necessarie. Ci sono volti vividi e vivi che sono delineati con verità e concretezza.
E c’è la riflessione. Perché quando si è davvero liberi? Quando si è invece prigionieri? Qual è il confine tra prigionia e libertà? È possibile essere prigionieri anche in quello che è un mondo apparentemente libero e senza sbarre?
Lorenzo Marone torna in libreria con un romanzo con un grande obiettivo: quello di sensibilizzare il lettore e spronarlo a riflettere su tematiche importanti che vanno dalla detenzione penale, alle carceri, alla maternità, alla libertà.
Non mancano le assonanze con altri titoli del medesimo genere, anche di recente pubblicazione, non manca un ritmo ben cadenzato anche se talvolta più lento rispetto a quella che è la narrazione complessiva. Nel complesso una piacevole lettura in cui si ritrovano alcune tematiche care allo scrittore ma altrettante frutto di una chiara e ponderata meditazione dettata dall’esperienza in prima persona. Un buon prodotto per chi ama questo format.
«Te l’ho detto che la gente è cattiva, ma forse non è manco cattiva, è che non se ne fotte di niente, la gente, non se ne fotte se cambi o muori, se tieni paura o no, se tieni fame o stai bene. La gente, io ho capito questo, tiene a pensare solo ai cazzi suoi. E però ho capito pure un’altra cosa, che la gente non se ne fotte niente perché non conosce, perché quando incontri una persona e le vuoi bene allora te ne importa. Anche io ti ho incontrato, e ti ho conosciuto, e ora ci tengo assai a te. E quindi penso che bisogna muoversi e incontrare a tutti quanti nella vita perché se no non vuoi bene a nisciuno, ma allora che campi a fare? […] Vorrei essere più grande, così potrei venirti a cercare. E vorrei pure che tutti tenessero la dolcezza tua, perché il mondo sarebbe un posto bello assai. E invece così non ho l’ho capito se mi piace. Però quando mi viene la tristezza apro il quaderno e leggo le parole belle una a una e mi pare di vederle, mi pare di sentire il loro odore nel naso e davanti agli occhi mi appari tu e mammà, e anche quei giorni belli, e così la tristezza mi passa. Ciao Melina mia, ti mando un bacio sulla fronte, come facevo in carcere. A volte mi pare che quella cella è stata l’unica casa che ho avuto.»