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Le scelte, il caso
Bastano le prime pagine e già siamo spiazzati, “straniati” rispetto alle nostre attese di lettori. Il primo sguardo del narratore si volge infatti non al delitto, ma a Roma che, in quel marzo 2016, ha due papi e nessun sindaco, e vive scene di quotidiano degrado, dalle quali emerge una punta di comico e di grottesco. Ma poi si entra nel vivo. Manuel Foffo, in viaggio con la famiglia per partecipare al funerale di uno zio, rivela al padre che nel proprio appartamento c’è il cadavere di un uomo che ha ucciso. Anzi, “abbiamo ucciso” . Non conosce neanche il nome della vittima. Lagioia, di cui seguiamo la ricostruzione dei fatti, racconta che il giovane non sa neanche precisare quando la cosa sia avvenuta: “due, quattro, cinque giorni fa”. Con lui c’era " uno che si chiama Marco", incontrato un paio di volte. Ma per Marco Prato, diversamente da Manuel, condannato a trent'anni, non ci sarà mai un verdetto: il processo a suo carico sarà interrotto dal suicidio nel carcere di Velletri.
Con La città dei vivi Lagioia entra di diritto nella folta schiera di autori di romanzi non finzionali, tanto affollata da farne ormai un genere di tendenza. Il suo modello di riferimento più evidente è L’avversario di Carrère, ma non manca qualche significativa affinità con La scuola cattolica di Albinati, anche per la scelta di un fatto di cronaca nera come soggetto. Si tratta di opere che nascono da una minuziosa raccolta di dati, documenti, inchieste giudiziarie, ricerche sul campo, contatti, carteggi, incontri con indagati, condannati, amici, genitori, parenti. Lagioia vi aggiunge una rassegna organica e argomentata delle reazioni dei media, in particolare dei social, mutevoli e ondeggianti teatri del dolore, tribunali impropri ma implacabili della cronaca nera contemporanea.
A caratterizzarli come “romanzi” e a distinguerli dal reportage o dall’inchiesta giornalistica c’è, tra l’altro, la presenza dell’autore come personaggio, attratto dalla vicenda che si impone alla sua attenzione, da cui viene scelto più che sceglierla, a cui partecipa, spinto dal bisogno di rispondere ad una domanda personale ed esistenziale. La tecnica narrativa rifugge pertanto da quella ricerca di oggettività e impersonalità flaubertiana propria di A sangue freddo di Truman Capote, capostipite di quello che venne definito a suo tempo “romanzo reportage” (ma anche sulla “oggettività” dello scrittore americano andrebbe svolta qualche considerazione). In particolare, Lagioia rievoca la crisi di cui fu preda in seguito al divorzio dei genitori, l’abuso di alcol, le azioni che rischiarono di compromettere la sua vita e il suo futuro. Per questo, appresa la notizia, ne resta turbato, per questo inizialmente tenta di rimuoverla e di rifiutare l’incarico di raccontarla, salvo poi scriverci sopra un intero romanzo.
Ed è infatti questo il filo conduttore de La città dei vivi: quale concatenazione di eventi ha reso possibile che due giovani fossero implicati, loro e non altri, in un delitto? Quali furono le piccole, in apparenza insignificanti svolte, le” sliding doors” che determinarono il tragico epilogo e stravolsero per sempre le loro vite, quali i momenti in cui era ancora possibile salvarsi e nulla ancora era compromesso? In quale misura il caso e gli incontri agiscono nelle nostre esistenze e ci fanno precipitare in quegli abissi che altrimenti avremmo evitati? Fino a che punto siamo artefici coscienti e responsabili della scelta virtuosa e di quella sbagliata?
Il racconto, per questo aspetto, si dipana in modo non rettilineo, come a spirale, e spesso l’autore ritorna su questi interrogativi di fondo, arrovellandosi sulle vere cause del delitto, spingendosi al di là del consumo parossistico di alcol e droga, indagando sulle dinamiche familiari, su eventuali fattori inconsci, sociologici o perfino antropologici. Inevitabile la descrizione dell’ambiente gay in cui la vicenda si colloca, nelle sue diverse stratificazioni sociali e comportamentali, anche se Lagioia sa evitare pregiudizi e facili schemi: il delitto Varani è una vicenda universale che ci interroga tutti, uno specchio, per quanto deformante, in cui siamo tutti chiamati a rifletterci.
Di fronte all'assenza di una risposta univoca, non manca l’attribuzione del delitto ad un fattore esterno deresponsabilizzante: la possessione demoniaca, un intervento diretto dell’”avversario”, cioè Satana, che appariva già nella conclusione del racconto di Carrère e dava il titolo al suo lavoro (ma andrà valutato in quale misura si tratti per il romanziere francese di una presenza reale oppure simbolica). Sfugge sempre la verità ultima, il sigillo definitivo: lo sforzo stesso di elencare tutte le ipotesi possibili, denuncia come un affanno, una difficoltà interpretativa, un dibattersi vano di fronte a qualcosa di inesplicabile.
C’è anche un altro elemento che fa da sfondo a queste vicende, come si accennava in apertura: Roma, nell'interregno che precede l’elezione a sindaco della Raggi e nel periodo immediatamente successivo, Roma dominio di topi, gabbiani e cinghiali, con le sue buche, i suoi ritardi, la sua lentezza amministrativa, l’anarchia accompagnata a indifferenza e rassegnazione, quasi un autocompiacimento generalizzato. L’Urbe si pone così non solo come sfondo occasionale, ma quasi come cornice del crimine, anche se i due piani narrativi e descrittivi vengono semplicemente affiancati l’uno all'altro né si vuole stabilire, com'è ovvio, alcun rapporto di causa ed effetto tra degrado e delitto. Eppure, quando Lagioia si trasferisce a Torino dove riceve l’incarico di direttore del Salone dei libri, ed ha modo di misurare il divario tra le due città, la capitale gli appare da lontano come un luogo dell’anima di cui non si può fare a meno, vi ritorna ad ogni occasione, ne assapora e vagheggia quella vitalità che ha il suo rovescio nell'invivibilità: una sorta di attrazione decadente per qualcosa che la ragione condanna, ma l’istinto avvolge con un’aura di misteriosa fascinazione.
Come ne La ferocia, dove il noir era frutto di pura invenzione, così qui lo scrittore disegna con sapienza personaggi che balzano fuori dalle pagine attraverso le azioni e i dialoghi, più che essere filtrati dalla lente del suo giudizio. L’obiettivo è capire, non condannare, e questa operazione si compie col massimo equilibrio. La stessa visita finale al padre e alla madre adottivi di Luca Varani, quel fermarsi raccolto dinanzi alla cappella che ne custodisce i resti, risarciscono la giovane vittima del minore spazio narrativo a lui dedicato, restituendogli l’umana pietà che fino a quel momento era stata come repressa dalla scelta di puntare i riflettori su Manuel e Marco.
De La ferocia però il romanzo non ha né la tensione lessicale né le complicazioni e arditezze sintattiche, che generavano qualche difficoltà di comprensione, ma conferivano allo stile un marchio di prorompente originalità. Lì c’era un mondo socialmente e psicologicamente stravolto da mettere su pagina. Qui c’è una difficile verità da indagare e da portare alla luce sulla base di dati, analisi, riflessioni: un’operazione verità mirante alla comprensione, ma anche all’autocomprensione.
Come avviene nei bravi scrittori, le scelte stilistiche sono correlate al testo e alle sue peculiarità di genere.
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Commenti
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A me piace approfondire e tentare di inserire in un contesto storico-letterario quello che leggo, piuttosto che affidarmi alle mie impressioni soggettive, anche se questo non mi fa guadagnare molti "mi piace". Spero così di fare un lavoro utile e comunque mi diverto e imparo.
Anch'io non amo fare della soggettiva impressione personale il criterio di valutazione di un libro. Anche la contestualizzazione biografica aiuta molto a comprenderne un più esteso significato.
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Non sapevo che ci fosse anche la categoria dei romanzi "non finzionali" .