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Tale padre, tale figlio
C’era una volta un burattino di nome Pinocchio, ma di lui sappiamo già tutto grazie a Collodi.
Questa è la vita di Geppetto il suo babbo, che come vuole il detto “tale padre, tale figlio” quanto si somigliano quei due, l’uno nato legno per diventare di carne grazie alla magia, l’altro nato carne e induritosi più del legno perché così va la vita, talvolta.
Lassù sulle montagne, in una casupola che è più una grotta, fredda come la neve e vuota come la povertà, un vecchietto dipinge sulla parete una pentola che bolle, poi si scalda col vapore disegnato. Convive con la solitudine ma ad essa non vuole arrendersi, pervicace il desiderio sempre più vivido di un amato figliolo con cui girare il mondo, sebbene non ci si possa permettere nemmeno una crosta di pane per rimpolpare le fessure tra le costole.
Un paesello che parrebbe un presepe non fosse che al posto di pastori, madonne e re magi esso è popolato di orchi; quanto realismo in questa non fiaba.
Geppetto vessato, isolato, percosso, il cuore buono di un falegname non smette di palpitare nella bella storia triste in cui non serve una fata per trasformare un uomo in un padre, un ciocco di legno in un bambino adorato.
Sfoglio le pagine e penso a mia madre che mi scrisse su un biglietto: “Se la felicità fosse cosa umana, ti direi sii felice. Ma siccome lo è solo il dolore, ti dico sii forte”.
Forte. Il fragile, affamato vecchio è solido più della roccia, l’amore per Pinocchio invariabile come la fiamma di una candela. Per quando si accorci e la cera si riduca a un millimetro, la fiamma arde con la stessa fluida e sublime intensità. Poi, quando non ci sarà più cera, stringeremo commossi la mano gentile di uno scrittore che sul nostro muro avrà disegnato, perenne, una candela accesa.
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