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Laide e Antonio
«Antonio ebbe un presentimento: come se quell’incontro avesse importanza nella sua vita, come se il coincidere rapidissimo degli sguardi avesse stabilito fra loro due un legame che non si sarebbe spezzato mai più, a loro stessa insaputa. Già in passato, più di una volta, aveva constatato l’incredibile potenza dell’amore, capace di riannodare, con infinita sagacia e pazienza, attraverso vertiginose catene di apparenti casi, due sottilissimi fili che si erano persi nella confusione della vita, da un capo all’altro del mondo.»
Febbraio 1960, Milano. È una mattinata apparentemente come tante ma non nel concreto per l’Architetto quarantanovenne Antonio Dorigo. Il desiderio, quell’istinto irrefrenabile si è preso gioco di lui, pulsa nelle viscere senza sosta e senza possibilità di interruzione. Lui che sa controllarlo benissimo, lui che delle donne ha un timore reverenziale vedendole come creature irraggiungibili, quando è colto da questi istinti non riesce a trattenersi e deve reagire, rispondere. La chiamata alla signora Ermelina, l’appuntamento per le 15 – come arrivare alle 15, come! –, l’incontro con lei, Laide, diminutivo di Adelaide, minorenne al tempo, ballerina alla Scala e non solo (anche al Due ma non solo e non solo ancora) con i suoi seni piccoli e appuntiti e le sue gambe magre e slanciate. Tonino da sempre ha un atteggiamento particolare verso le donne. Le vede come creature irraggiungibili ma anche in un certo senso come pesi da tenere a debita distanza onde evitare di poter essere “contagiato” da loro, da poterne in qualche modo diventare dipendente. Ancora, sono dal suo punto di vista in un certo senso creature “inferiori”, non al pari a livello di istruzione almeno e di acume ancor più dell’uomo. Creature inconcepibili a maggior ragione dal punto di vista di quel concedersi che ha sempre immaginato come qualcosa di esclusivo, prezioso, Tuttavia, Laide non è come le altre. Si presenta all’incontro con le ascelle non rasate (cosa inconcepibile e lui lo sa bene), indossa un abito non particolarmente atto a metterla in mostra, non sembra essere nemmeno particolarmente bella con quei suoi tratti e capelli ordinari. Eppure ella esercita su di lui un fascino irresistibile. Da un incontro ne sussegue un secondo e da qui un terzo. Lo stesso Dorigo è sorpreso di se stesso. Cos’ha alla fine questa ragazza di così diverso dalle altre da trascinarlo in questo vortice dal quale sembra non riuscire a staccarsi? Vi è anche un cambio di scena in quanto i due, piano piano, iniziano a vedersi fuori dalle stanze della signora Ermelina ma sempre con il previo Dio denaro a far da padrone. Per Antonio, però, le cose cambiano. Stranamente, inaspettatamente si accorge di essere innamorato. Lui, innamorato. A quarantanove anni. Lui innamorato e di una ragazza con così tanti anni meno. Lui innamorato e di una ragazza che fa il mestiere anche se non vuole ammetterlo. Lui innamorato, geloso e pure “preso per il naso” da una ragazza che si approfitta della sua ingenuità.
«[…] Disarmato e solo. Nulla esiste oltre alla malattia che lo divora, è qui se mai l’unico suo scampo, di riuscire a liberarsi, oppure di sopportarla almeno, di tenerla a bada, di resistere fino a che l’infezione col tempo esaurisca il suo furore. Ma dall’istante della rivelazione egli si sente trascinare giù verso un buio ma immaginato se non per gli altri e d’ora in ora va precipitando.»
Una gelosia senza freni, una gelosia che lo mangia dall’interno. Un sentimento che non sa gestire, un modo di vivere che in alcun modo avrebbe mai prospettato di dover affrontare. Com’è possibile gestire o un siffatto sentimento d’amore che è una malattia che ti pervade dentro e ti mangia senza sosta e senza remore? Inizia da qui la lunga epopea di Dorigo che della giovane è innamorato e che dalla stessa è schiacciato. Ma inizia anche il viaggio di Laide perché la giovane, a sua volta, è costretta a una vita che forse è dovuta e non voluta, che forse semplicemente è piegata da una società che senza troppi fronzoli e senza troppe remore condanna, vive di apparenze e sfarzi e non accetta compromessi per chi non fa parte di quel contesto previsto.
Da qui la riflessione su quel che è la borghesia e la classe borghese, su quel che è la classe anni ’60 ma anche su quel che è la consuetudine sociale, la maschera, l’ipocrisia. Nell’opera di Buzzati ritornano vari aspetti ricorrenti, dalla solitudine all’introspezione, ai volti che abitano la consuetudine del vivere. Dorigo è l’emblema di questa. Per mezzo di Laide scopre e si rende conto di quelle che erano le sue paure, di quelle che erano e sono i timori del vivere quotidiano. Laide vive nella parte più oscura, nella parte più “condannata” da dettami della consuetudine sociale ma riempie la vita di Antonio e da qui subentra la consapevolezza di una vita precedente vuota e senza veri obiettivi, fatta di paura ma priva di emozioni. Una consapevolezza sul vivere e l’esistere, sulla società che ancora oggi abbiamo accanto, sul nostro quotidiano e su un tempo che forse non è così lontano nei suoi usi, nei suoi mezzi, nelle sue consuetudini e anche nei suoi pregiudizi e nelle sue ombre.
«Perché lui era stato come pietra legata a una corda e fatta girare più svelto sempre più svelto e a farla girare e fatta girare più svelto era la bufera d’autunno era la disperazione, l’amore. E così follemente girando non si distingueva più che forma aveva, era diventato una specie di anello fluido e palpitante. […] Come aveva potuto dimenticare una cosa così importante, la più importante di tutte le cose? Adesso era là di nuovo si ergeva terribile e misteriosa come sempre, anzi sembrava alquanto più grande e più vicina. Sì l’amore gli aveva fatto completamente dimenticare che esisteva la morte. Per quasi due anni non ci aveva pensato neppure una volta, sembrava una favola, proprio lui che ne aveva sempre avuto l’ossessione nel sangue. Tanta era la forza dell’amore. E adesso all’improvviso gli era ricomparsa dinanzi, dominava lui la casa il quartiere la città il mondo con la sua ombra avanzava lentamente. Ma intanto lei, portata via dal sonno, inconsapevole del male che ha fatto e che farà, si libra sotto i tetti i lucernari le terrazze le guglie di Milano, è una cosa giovane piccolissima e nuda, è un tenero bianco granellino sospeso pulviscolo di carne, o di anima forse, con dentro un adorato e impossibile sogno. […]»
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Lo trovai scorrevole, ma mi lasciò piuttosto indifferente, e con nessuna voglia di rileggerlo.
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