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La ragazza di Bube
 
La ragazza di Bube 2022-03-01 07:24:07 Calderoni
Voto medio 
 
4.5
Stile 
 
5.0
Contenuto 
 
5.0
Piacevolezza 
 
4.0
Calderoni Opinione inserita da Calderoni    01 Marzo, 2022
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La sconfitta di una generazione

Naturale continuazione di Fausto e Anna, La ragazza di Bube è il romanzo più celebre di Carlo Cassola. Si tratta di un vero e proprio caso editoriale. Insieme al Giardino dei Finzi-Contini di Giorgio Bassani, è stato uno dei primi bestseller all’italiana, facendo seguito all’uscita de Il Gattopardo nel 1958 per Feltrinelli. Questo successo di pubblico per La ragazza di Bube è giustificato? Direi di sì. La narrazione è frizzante e rapida. Dominano il discorso diretto e l’azione. Le descrizioni sono ridotte al minimo e anche l’approfondimento psicologico non è così profondo, a differenza di altri romanzi del nostro Novecento. Ci sono ellissi che aumentano il ritmo della narrazione. Il romanzo è suddiviso in quattro parti, di cui la terza è la più lunga (un centinaio di pagine contro le quaranta della prima, le circa settanta della seconda e le trenta abbondanti della quarta).
La figura emblematica di questo libro è Mara, la ragazza di Bube per dirla con una perifrasi. Al termine della lettura Mara lascia un segno. La ragazza, al termine del romanzo divenuta donna, non indaga le ragioni dell’errore del suo innamorato: lo accetta come un semplice sbaglio e lo ripaga con la fedeltà. Sostituisce il giudizio morale con il sentimento. In tal senso La ragazza di Bube è una storia romantica, di amore e fedeltà, ma anche di sacrificio, incarnata da questa eroina appartenente al popolo, capace di suscitare emozioni e solidarietà. Nonostante tutto, Mara per Bube c’è e soprattutto ci sarà quando Bube potrà tornare a vivere da libero cittadino dopo la pena che gli è stata inflitta.
L’analisi tematica del romanzo, però, non può ridursi a questo. Cassola affresca la storia di un’intera generazione, la generazione che con la Resistenza era divenuta classe dirigente, protagonista della nuova vita democratica successiva ai vent’anni di regime e ai due anni di guerra civile. Emerge in modo lampante la sconfitta di questa generazione che ha visto annullata la propria giovinezza, è cresciuta troppo in fretta a causa della guerra e ha commesso misfatti che pagherà nel successivo periodo di pace. Emblematica in tal senso è la figura di Cappellini Arturo, conosciuto da tutti come Bube. Al fronte, tra le fila partigiane, ne aveva assunto un altro di nomignolo: il “Vendicatore”. Era amico e compagno di Sante, il fratello di Mara, morto prematuramente in battaglia. Bube vuole essere la testimonianza che la guerra annulla tutto quello che di umano caratterizza l’essere umano. La turpe violenza, la vendetta e l’acredine nei confronti dell’altro, del “nemico”, diventano la legge. Bube, nella sua ingenuità adolescenziale, è stato centrifugato dalla guerra, vivendo, come tutti, un periodo della sua vita senza il governo delle leggi. Si è guadagnato sul campo il nomignolo di “Vendicatore”, è stato incitato a commettere del male nei confronti dell’avversario. Un male ingiustificato perché spettava a lui il compito e l’onore di picchiare. Con questo spirito incorre in un incidente più grave, da cui tutta la sua esistenza sarà segnata. Nato da un classico alterco di paese tra comunisti e un maresciallo dei carabinieri (decorato della Resistenza, ma questo si saprà soltanto in seguito; nel 1945, agli occhi di un comunista, un maresciallo per pregiudizio comune non può che essere un fascista) si accende una sparatoria in cui il maresciallo uccide un compagno. A sua volta un altro compagno uccide il maresciallo e Bube, ancora immerso nel vortice della vita di macchia da partigiano, insegue e uccide il piccolo figlio del maresciallo.
Un tema molto spesso poco dibattuto è il reinserimento nella società di chi ha combattuto una guerra, di chi come Bube è stato partigiano. Ne La Storia di Elsa Morante si può vedere un altro ottimo esempio di sconfitta di questa generazione (si pensi a Carlo Vivaldi o al fratello maggiore di Useppe, Ninuzzo). Anche Bube esce con le ossa frantumate dal conflitto e da quello che ha implicato. Si inserisce in questo contesto uno dei temi più controversi del romanzo, messo in evidenza dal critico Geno Pampaloni, da sempre vicino alle istanze del Partito comunista italiano. Si tratta del tema della “educazione politica”. Bube si sente tradito dal suo partito e non soltanto perché, dopo il delitto (che egli pensa di aver compiuto quasi per delega del suo partito), il partito non lo difende abbastanza. Gli anni di controversie legali e di carcere permettono infatti a Bube di aprire gli occhi sull’intera sua parabola nel mondo comunista e partigiano. Comprende, soffrendo, che è stato vittima fin da quando il partito lo ha educato ai valori della violenza punitiva, lo ha accettato e sollecitato nel ruolo di “Vendicatore”, senza avvertirlo dei rischi mortali che egli correva, del non-valore etico implicito nell’ideologia della violenza.
La vicenda, proprio come Fausto e Anna, è ambientata in Toscana, in uno dei luoghi deputati del mondo di Cassola, la Val d’Elsa. L’atmosfera è quella dell’Italia liberata che sta cercando una nuova direzione. Bube è stato un valoroso partigiano e ha trovato nella lotta un’immagine di sé che lo soddisfa ma al tempo stesso lo chiude come uno stereotipo, quello di “Vendicatore”. Sempre e comunque, anche a guerra finita, tutti si aspettano che si comporti così e significativo è l’episodio che avviene con il prete Ciolfi, vecchio fascista che deve scappare dal paese. In Bube l’astio politico si mescola con la pietà nei confronti di quel prete conosciuto fin dall’infanzia, ma alla fine per saziare quello che è il suo attributo violento da protettore si trasforma egli stesso in aggressore di Ciolfi. Nel buio dello stereotipo dal quale non riesce a liberarsi Bube incontra l’amore. È l’amore di Mara, che si manifesta in maniera delicata ed emozionante in un capanno, prima della fuga di Bube per scappare dai problemi con la legge. L’incontro al capanno ha una funzione di rigenerazione: Bube attraverso Mara inizia ad aprire gli occhi, a comprendere di essere stato “usato”. Le sue peripezie sono appena iniziate, ma può contare su nuove consapevolezze e su Mara. Ecco perché le parole di Mara al termine del romanzo, «un po’ di pietà, signori giudici. Noi non chiediamo altro che un po’ di pietà», echeggiano come una richiesta commossa nei confronti di un’intera generazione, martoriata e stravolta dalla guerra.

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E' sempre una bella lettura, Andrea. Per motivi professionali l'ho letto 2/3 volte ; funziona bene anche da un punto di vista didattico.
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