Dettagli Recensione
L'UTOPIA DEL POSSIBILE
“La verità non è mai così esatta da non consentire una certa dose d'immaginazione.”
Pubblicato nel 1975, “Il quinto evangelio” di Mario Pomilio è una sorta di corpo estraneo, di entità aliena nel panorama letterario italiano del secondo Novecento, in quanto sfugge pervicacemente ad ogni tentativo di inquadramento, ad ogni sforzo di catalogazione. A metà tra romanzo epistolare e saggio filosofico-religioso, un po’ dramma teatrale e, se si vuole, perfino giallo sui generis, il libro è incentrato su una ipotesi quanto mai suggestiva, quella dell’esistenza di un vangelo inedito, diverso dai tanti comuni apocrifi, a cui il protagonista, un professore universitario americano, per giunta ateo, entrato per caso in contatto, quando era ufficiale di stanza in Germania durante la fine della Seconda Guerra Mondiale, con le enigmatiche carte appartenute a un prete che prima di lui aveva abitato la canonica assegnatagli come alloggiamento, finisce per dedicare tutta la vita nell’utopistico tentativo di rintracciarlo, con l’aiuto di una fedele squadra di giovani allievi. Per mezzo di pazienti e scrupolosissime ricerche presso antiche biblioteche e polverosi archivi, inseguendo labili indizi e impalpabili tracce, Peter Bergin, tale è il nome dello studioso, riesce a mettere insieme una nutrita serie di carte, lettere e manoscritti, di varia provenienza geografica e di diversa datazione storica, che citano più o meno esplicitamente il quinto vangelo, il quale finisce così per risultare, apparentemente accessibile e a portata di mano eppure alla fine sempre sfuggente, come quei fiumi carsici che affiorano a volte in superficie per poi tornare a sprofondarsi sotto terra e sparire per un lunghissimo tratto. Grazie a questo meccanismo narrativo, Pomilio mette in atto una complessa operazione di finta filologia, elencando carteggi epistolari, codici religiosi, annali storici e leggende, che altro non sono se non dei documenti inventati eppure perfettamente plausibili, intercalandoli con testi realmente esistenti (come la storia di fra’ Michele Minorita) ma utilizzati fuori dal loro abituale contesto. Viene spontaneo alla mente il riferimento a Jorge Luis Borges e ad alcuni suoi racconti (ad esempio “Tlon, Uqbar, Orbis Tertius” o “L’accostamento ad Almosatim”) contenuti nella memorabile raccolta “Finzioni” e zeppi di riferimenti a opere fittizie ma del tutto verosimili. Questo viaggio indietro nel tempo all’inseguimento di un vangelo che è una specie di meta che si sposta in continuazione, come un illusorio miraggio, dà la possibilità a Pomilio di esibire uno stile camaleontico, ora riproducendo la dotta scrittura ecclesiastica, piena di colte citazioni delle Scritture, ora i toni della narrazione popolare, ricca di ingenue e colorite esagerazioni agiografiche, ora un volgare erudito del primo millennio oppure ancora un linguaggio aristocratico del ‘600. E’ una quest non facile per il lettore, che deve destreggiarsi tra una mole non indifferente di materiale eterogeneo, unita dall’unico, labile filo conduttore di uno pseudo-documento religioso, eppure possiede innegabilmente un enigmatico fascino, che ha probabilmente influenzato altri scrittori più o meno coevi al Pomilio, primo fra tutti l’Umberto Eco de “Il nome della rosa” (purtroppo ci sono stati anche degli epigoni ben più mediocri, come il Dan Brown de “Il codice Da Vinci, su cui preferisco soprassedere).
Quella che in apparenza potrebbe sembrare un’operazione erudita ed elitaria, alla resa dei conti si rivela un libro per nulla calligrafico o estetizzante. Si prova sempre un gusto molto particolare (e quanto mai raro da sperimentare, ad essere sinceri, nei romanzi di oggi) quando ci si trova di fronte a frasi cesellate con cura meticolosa, ancorché vagamente arcaiche e démodé, frasi in cui ogni parola è messa al posto giusto, con l’esattezza (quell’esattezza esaltata da Calvino nelle sue “Lezioni americane”) di toni e sfumature, che non hanno mai una funzione esornativa, eleganti ma non manierate, sempre attente a cogliere le intime vibrazioni dell’anima eppure costantemente collegate alla realtà, mai perse in una astrazione sterile e fumosa. Quello che più colpisce ne “Il quinto evangelio” è soprattutto il modo in cui si innerva nell’opera una fortissima tensione spirituale, un’ansia religiosa che per la sua intensità ricorda Pascal e che non scade mai nel dogmatico o nel confessionale. Pomilio parla di fede, certo, ma con uno spirito che, pur non respingendo affatto la tradizione, l’ortodossia, rifugge da quella sorta di “conformità dell’assenso” così diffusa nell’ambiente della Chiesa. “Il quinto evangelio” risente indubbiamente del clima degli anni ’70, un periodo in cui una diffusa insofferenza per le rigide posizioni ufficiali della gerarchia ecclesiastica e un anelito rinnovatore alimentato dalle istanze del recente Concilio Vaticano II aveva dato origine a numerose comunità di base (come quella dell’Isolotto di don Enzo Mazzi a Firenze, o quella, meno conosciuta ma alla cui nascita, nonostante fossi un semplice bambino, ho avuto modo di assistere, della Comunità di Oregina di don Agostino Zerbinati a Genova), ben presto soffocate – come è facile immaginare – da espulsioni e sospensioni a divinis. Pomilio non è certo un contestatore, eppure nel suo “Quinto evangelio”, per i pochi frammenti che ci è dato di leggere, “ci sono tante cose ardite, e perfino troppo ardite, accenti chiari e umani, e perfino troppo umani, verità… che a male interpretarle diverrebbero temerarie”, ed è per questo che l’autore ipotizza, nella finzione del romanzo, che la Chiesa possa averlo scientemente fatto sparire dalla circolazione a causa dei suoi accenni al sacerdozio universale dei credenti o alla carità destinata a prendere il posto della Legge, e, più in generale, di un’interpretazione più terrena e meno teologica delle Scritture, che lo renderebbe un testo addirittura sedizioso. Il mito del quinto vangelo, il quale si manifesterebbe ogni volta che l’umanità ne sente l’assillante bisogno, rappresenta quella tensione cristiana perpetuamente in bilico tra la certezza di una verità definitiva, “già tutta scritta, tutta offerta in pienezza, tutta quanta testimoniata” dalle Scritture canoniche e la tendenza a considerare la verità un qualcosa che ancora attende di compiersi, di inverarsi in un nuovo libro che ogni generazione, tramite una sorta di delega della Parola, è chiamata non solo a cercare, ma contribuire addirittura a farsene autrice. Con la lucida intelligenza del suo pensiero, la quale, nonostante la serietà dei temi trattati, non ha paura di trasformarsi di quando in quando perfino in sarcasmo (il cavalier Du Breuil il quale, proprio quando entra in conflitto con il giansenismo cui aveva aderito in gioventù, viene arrestato dall’Inquisizione per la diffusione di idee gianseniste, oppure Giosué Bergogno, il quale vive la sua vita come un doppio del Cristo e paradossalmente, pirandellianamente quasi, sperimenta la sua personale passione proprio interpretando il Cristo in una sacra rappresentazione popolare), Pomilio procede, alla stregua del suo protagonista, come “un uomo che cerca Dio, ma non in veste di credente”, “in perpetuo equilibrio tra il dovere del dubbio e la vigilanza sul dubbio”. Egli fa del suo cercatore di vangeli sconosciuti un sognatore, “capace di ricavarsi un universo da un frammento o di veder riflesso un cielo in una goccia d’acqua”, facendoci quasi credere, o perlomeno sperare, nell’esistenza di questo inedito testo sacro. Ma l’importante non sta nel fatto che il quinto vangelo esista o meno, non sta cioè nell’effettivo raggiungimento dell’obiettivo della sua ricerca (che forse è una mera ipotesi, una chimera), ma in quel “viaggio che ha per meta l’infinito”, in quell’avventura mistica, che merita comunque di essere perseguita, anche se il rischio è, dopo tanto girare, quello di ritrovarsi a due passi da casa. Se anche è un’illusione, il quinto vangelo è una credibile illusione, una scommessa col mistero, da vivere comunque perché è bella di per sé, il che poi è, se ci si pensa bene, la definizione stessa della fede.
“Il quinto evangelio” è un romanzo necessario, che può leggere il credente più devoto ma anche il relativista più accanito, in quanto è sì profondamente cristiano, ma mai dogmatico o trascendente, bensì del tutto calato nella realtà storica del nostro tempo. Si pensi alla riflessione sulla libertà e sull’obbedienza alla legge, quando, in quello stupendo dramma sacro che conclude il libro e in cui si raggiungono vette altissime di speculazione etica e filosofica, viene affermato a chiare lettere quel sacro principio di disobbedienza civile ogni qual volta una legge dello Stato si dimostri ingiusta (non a caso la pièce è ambientata nella Germania del 1940) e tenti di asservire le coscienze per costringere gli uomini a comportarsi in maniera immorale. Pomilio rende quanto mai attuale il messaggio cristiano, sottolineandone la sostanziale iconoclastia, la irriducibile alterità alle leggi di questo mondo, e immaginando che un nuovo Gesù, magari nelle misteriose vesti di un quinto evangelista, possa subire la stessa sorte del suo predecessore di duemila anni fa. Visto in quest’ottica, il romanzo di Pomilio potrebbe apparire velleitario quanto si vuole, visionario quanto si vuole, ma, come il vangelo che lo sottende, risponde a un impellente bisogno, per nulla anacronistico ma radicato profondamente nelle nostre coscienze, quello di “rincorrere un’evidenza per incontrare una speranza”, di inseguire un messaggio per raggiungere la fede.
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