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Figlio di chi?
Un racconto “ strano “, così definito nell’ incipit dallo stesso Massimo Bontempelli, “ Il figlio di due madri “ ( 1929 ) rientra nell’ ambito di costruzione della nuova narrativa novecentista da lui auspicata tra le righe della rivista Novecento. Ne nasce un vero e proprio romanzo, con una costruzione cinematografica, corredato dallo sviluppo di una storia, piuttosto lontano dalla vena creativa e ironica dell’ autore, un romanzo intriso di realismo magico, che esclude ogni personalizzazione per assumere la terza persona in una rappresentazione a metà tra realtà e inconscio, verità e ipnotismo, una duplicità che ne accarezza i contenuti.
La trama è semplice quanto paradossale. Mario, il giorno del suo ottavo compleanno, improvvisamente, come rapito da un sogno, chiede alla madre Arianna di essere ricondotto da Luciana, che ritiene la sua vera madre, di cui incredibilmente conosce indirizzo e dettagli personali, scatenando una ridda di eventi e un duello tra le parti. Un bambino, due nomi ( Mario e Ramiro, il prima e il dopo ), due date di nascita, la stessa età, otto anni di distanza, due madri, due padri, due case, strane coincidenze, il sospetto che si tratti di un inganno, di una malattia psichica, di una montatura ad arte, di un trauma emozionale, di un delirio lucido, di un semplice attacco di follia.
Particolari troppo vividi per non essere ritenuti veri, un duello a distanza, tra incomprensione e dichiarata follia, una lotta intestina per accaparrarsi l’ amore incondizionato di un figlio che pare avere smarrito la memoria da un lato e riacquisito lucidità dall’ altro.
Impossibile dire che cosa è successo, non resta che seguire il rimescolio di voci e pretese in una guerra tra adulti, per contro l’ ingenua lucidità di un bimbo che richiede di riabbracciare l’ amore materno.
Due donne, due madri, due mondi, le protagoniste assolute del racconto, più di quel figlio che pare strumentale e dei rispettivi mariti, figure lontane e piuttosto stereotipate.
Arianna, madre di Mario, è una giovane donna ancora piacente, d’ animo ubbidiente e di intelligenza tranquilla, alloggiata in un mondo borghese cittadino, oppressa dall’ arroganza di Mariano Parigi, il pater familias, un’ anima semplice poco fantasiosa che vive con terrore un racconto più grande di lei, parole e descrizioni precise, immagini che le appaiono in sogno facendola dubitare della sua essenza di madre.
L’ altra lei e’ Luciana, madre di Ramiro, espressione di un universo popolare, affranta da un duplice dolore, la morte del proprio amante gettatosi da una rupe dopo averla abbandonata e l’ assurda scomparsa di Ramiro all’età di otto anni, una donna auto-esiliatasi che nella memoria ripercorre ogni giorno la propria vita, la solitudine dell’ infanzia, i tre anni di un amore cocente e furioso, i sette della maternità fino alla morte dell’ adorato figlio.
Mario e Ramiro, un bambino che nel pianto assomiglia a una madre e nel riso a quell’ altra, una somiglianza perfetta ogni altra immaginazione.
Nell’aria una strana tenzone, la lecita appartenenza dell’ infante, chi l’ ha visto nascere, chi l’ha visto morire, il pianto, la disperazione, la gioia per il ricongiungimento, il dolore della perdita. Una vita che si inabissa e un’ altra rinvenuta dall’ abisso, una sacra alleanza tra donne che detengono il potere sulla vita e sulla morte del loro frutto prezioso.
La duplicità riesce a legare le due madri in nome dell’ amore, nessuna vuole allontanarsene, alleate contro il caos mediatico scatenatosi nella fiera dell’ umana vanità.
L’ amore materno ne uscirà vincitore o sarà troppo tardi e il dolore della perdita eccessivo?
L’ originalità dell’ idea supposta, brillantemente e vivacemente esposta nei capitoli iniziali quando il viaggio tra realtà e finzione alterna e contrappone la vivida descrizione di un mondo borghese e di un microcosmo popolare identificati e rappresentati in due reali quartieri romani, l’ elegante Ludovisi e il popolare Trastevere, perde forza e mordente nel proprio incedere avvicinando e sfiorando i toni del romanzo d’appendice.
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