Dettagli Recensione
Miriam & Andrea
«A quanto pare finiscono così, gli uragani. A un certo punto il tempo cambia, e niente, basta, l’uragano sparisce. Esce il sole, e tutto il resto. Dev’essere una cosa bella, quando un uragano finisce così, senza che te l’aspetti. E insomma. Magari pure con te, con ‘sta cosa che ti è successa, può succedere così. No? Nel senso, che all’improvviso ti svegli, esce il sole, e tutto il resto.»
Amore e perdita. Amore e impotenza. Amore e dolore. Gallipoli, una Gallipoli ben diversa da quella che vediamo nelle copertine e che visitiamo, se siamo fortunati, d’estate. Una Gallipoli con molte ombre e tante oscurità, un luogo che è semplicemente odiato dai protagonisti, giovani anime che vivono questo come una gabbia. Forse perché consapevoli sin da subito che talvolta il dove nasci può condizionare tutta la tua vita e il tuo divenire. Forse semplicemente perché non sempre quel luogo può davvero essere il tuo luogo anche se rappresenta le tue radici. Un’oscurità, quella presente in quelle pagine, che seppur in modo diverso era già presente in “Io sono la bestia”, prima opera dell’autore, molto fortunata sul piano del riscontro del pubblico e sempre edita, come in questa seconda fatica a firma del medesimo, da NN editore. E se come ci insegna Pirandello molteplici sono le facce che l’uomo indossa, altrettanto vero è che non sempre quel che ci circonda ne ha una univoca e plasmata a immagine e somiglia immutabile, anzi, anche in questo caso molteplici sono le forme come anche le sembianze.
«Mai, con nessuno. Nemmeno con me stesso. Perché quando uno muore come è morto lui succede che tutti quelli che lo conoscevano bene iniziano a vivere come superstiti.»
Da queste brevi premesse conosciamo Miriam e Andrea, due ragazzi che si conoscono da poco, un poco che è stato sufficiente a far scoccare la breccia dell’amore. Lui innamorato perdutamente di lei, lui che mente perché in imbarazzo, per vergogna, per ansia, per timore di non essere abbastanza. Tuttavia, Miriam a causa di un incidente si ritrova in stato di coma. Noi la conosciamo così, già in questo stato, con Andrea che a lei parla perché i medici hanno consigliato di farle ascoltare le voci delle persone care. Questo potrebbe aiutarla a tornare indietro, a vincere quello stato di profondità in cui si trova, a uscire da quel pozzo in cui è stata calata. Miriam, a sua volta, sembra rispondere ad Andrea. Sembra rivivere dei giorni che ha vissuto, delle esperienze che ha percepito e ai fini narrativi il cambio di voce viene a essere evidenziato con un corsivo che rappresenta la voce di lei e che si alterna a quello dell’io narrante principale.
A queste prime voci si aggiunge Nanni, papa Nanni, una sorta di santone che si sente emissario quanto profeta con il suo tamburello che suona. Personaggio molto particolare che si sfugge, non si riesce a inquadrare.
Sette i giorni che sviluppano la vicenda e che portano a ricostruire il passato di giovani del nostro tempo. Con le loro problematiche, le loro cadute, i loro incubi, i loro tentativi di fuga, le loro incomprensioni, rabbie e dolori. Ma anche con le loro difficoltà del quotidiano e quei problemi che spesso sembrano insormontabili e/o invalicabili.
Tuttavia, se in “Io sono la bestia” la storia scorreva tutto sommato con un ritmo abbastanza cadenzato e riusciva a trattenere il lettore per curiosità e potenzialità (seppur non particolare originalità) e stile narrativo con “Lei che non tocca mai terra” le difficoltà nella lettura, a tratti farraginosa, lenta, altalenante, non mancano e sono molteplici. Cosa ancora più difficoltosa da affrontare è proprio lo stile adottato che non coinvolge bensì allontana. Che non convince. Che pone come un filtro tra chi legge e chi narra, come se fossero due dimensioni completamente distinte e considerando il tema di cui si parla, non è plausibile che ciò si manifesti. Come quasi se fosse autoreferenziale. Quel che si prova quando una persona cara è in uno stato di coma non permette divisioni di alcun genere. Si tocca con mano quella che è la quasi morte, anche solo osservando, si fa leva su un qualcosa che per sua natura porta all’emotività del coinvolgimento, alla consapevolezza che potrebbe davvero essere l’unica volta.
Ho letto diversi titoli con questa tematica alla base, ho letto anche il precedente Donaera ma resta quella sensazione di incompletezza e di freddezza che non convince. La sensazione, inoltre, è che lo stesso narratore si perda nei suoi intenti nel narrare come se nel volere ricostruire passo passo quel che è stato perda di vista quel che è. Come se la storia gli sfuggisse dalle mani, non riuscisse a trattenerla. Per non parlare, infine, dello sviluppo che porta a un epilogo che a sua volta induce a chiedersi il perché.
«Mentre attorno a noi tutto si riempie di ombre, di mani che ci toccano, di braccia che ci afferrano. Un corpo si stringe attorno a noi, una voce che sa di infanzia e di estate, un abbraccio fortissimo, un pianto che potrebbe non finire mai. Un silenzio immenso, l’udito perso. Sembra essere l’ultima cosa del mondo, sembra essere un uragano pesante come tutto il peso della Terra, sembra essere il buio più luminoso e impossibile che ci sia. L’esplosione ci brucia le punte dei capelli. Sembra durare per sempre.»
Indicazioni utili
- sì
- no