Dettagli Recensione
IL RESTO DI NIENTE
L’ultimo felice lavoro di Chiara Gamberale è un racconto di contenuti e contenitori, di piatti pieni o miseramente vuoti, di abbondanza e carestia.
Di figure e persone, personaggi e protagonisti.
Una storia che comprende madri e padri, figli e famiglie, eventi e accidenti; povertà e ricchezza, amicizie e amori, passeggiate a manina o passioni sensualmente travolgenti.
Ancora: la vita come accade, i Natali, le Pasque, i Capodanni, le relazioni furtive, le emozioni nascoste, le canzoni dell’epoca, i tristi e miseri rotocalchi televisivi di gran successo, le chat di gruppo e i gruppi di lavoro, le unioni riuscite o disunite, le apparenze da salvaguardare, le scelte rimandate all’infinito nei tempi a venire, di tutto, di più. O meglio, tutto o niente.
Croce e delizia, come è sempre l’esistenza: poiché più spesso croce, allora è un’esistenza stile “mai una gioia”, senza niente. Senzaniente. La saga dei senzaniente.
Solo che a scriverlo tutto questo, ed a scriverlo bene, compenetrandoci con il narrato della protagonista principale, dandole un senso ed una morale, rendendolo una bella lettura, una buona storia scritta meglio ancora, è una scrittrice forte, agile, fluente, che ci riporta adesso qualcosa.
Chi conosce i titoli precedenti dell’autrice, ne riconosce un paio da quanto appena detto, che esemplificano al massimo il senso dell’ultimo lavoro.
Poiché questo romanzo è uno step successivo, un gradino qualitativamente più alto di quello già eccelso di partenza, qui la scrittrice romana appare più matura, completa, profonda.
“Il grembo paterno” di Chiara Gamberale è un ben più di adesso e qualcosa: lo è perché dice molto, non solo qualcosa, e andando su e giù nel tempo, non solo adesso; per i tempi oscilla tra adolescenza e maturità, per la quantità enumera tutto quanto costi e comporti il passaggio dall’uno all’altra condizione, e viceversa.
La protagonista, Adele, dapprima adolescente e poi giovane donna, col suo narrare in prima persona, che pare un continuo intercalare da un punto all’altro, di palo in frasca, dice il suo e un attimo dopo ripete il detto altrui o i rumori di sottofondo della scena con una onomatopea impressionante, ci porge in realtà un discorso preciso, un descrivere accurato, un eloquio diretto mirato al dunque, con il proprio idioma, i suoi modi di dire particolari ed intensi, talora struggenti nel riportare il suo vissuto.
Chiara Gamberale, con sensibilità e pudore, soprattutto con rispetto e riguardo, si pone in ascolto di quanto la sua protagonista le confida da pari a pari, da donna a donna, e lo fa con attenzione, cioè proprio con l’attributo che sempre è mancato a Adele: l’attenzione.
Tutti necessitiamo di attenzione, e di tutto quanto questo comporta, perché tutti noi per indole ci innamoriamo, le donne più degli uomini, le bambine addirittura iniziano prestissimo innamorandosi del principe azzurro più bello del mondo, il proprio papà, e non vedono l’ora di crescere per poterselo sposare, e guai a chi, senza merito, senza ruolo o virtù, osa mettergli gli occhi addosso.
Tutti ci innamoriamo, prima o poi, più prima che dopo, tutti abbisogniamo di interesse, premura, riguardi, la vita stessa pretende che i viventi si innamorino, e l’amore inevitabilmente, quasi per definizione, ci rende fragili, cagionevoli, vulnerabili, e ciò che si incrina pretende attenzione per non infrangersi, forse silenziosamente o in modo attutito, ma sempre dolorosamente.
Crescere significa coltivare un terreno brullo, serve il giusto concime, l’amore, in mancanza del quale il grano soffoca e la malerba prospera.
“…Quello che ci guarisce, è quello che ci ammala.”
“Il grembo paterno” in estrema sintesi altro non è che un ribadire forte di quanto il contesto in cui si cresce affettivamente influenzi il nostro divenire, quello di chiunque, permettendo un equilibrato evolversi della persona o, all’inverso, lasciandoti letteralmente senza niente.
Perché nessuno nasce imparato, e ciascuno è una tabula rasa all’origine dell’esistenza, possiamo efficacemente forgiarne l’anima, riempiendo il quadro vitale di cenni lievi, colorati con brio o a tinte dolci, lineari, affettuose, educare coloro affidati alla cura parentale con attenzione, comprensivi, coerenti, partecipi e presenti. Fornirli di un bagaglio di immagini e sensazioni positive con cui alimentare la loro crescita, la loro autostima, perché sbaglino tranquillamente mille volte nell’imparare a vivere, e ogni volta riprendano il cammino, con le ginocchia sbucciate e l’animo più forte ed esperto, sempre fiducioso nel meglio a venire.
“…nessuno ha quello che si merita: ma ognuno di noi può avere quello che spera di meritare.”.
Perciò chi cresce figli con relativi onori ed oneri deve tracciare nei particolari disegni a linee graziose, accurate, idonee a rendere un insieme gradevole, confortevole, delizioso, per delineare non un quadro idilliaco, sarebbe utopistico, troppi i parametri da far collimare alla perfezione, ma più spesso un habitat semplicemente umano, un lessico familiare normale nelle intenzioni e nelle azioni.
Succede invece che, a colpa o a ragione, qualcuno si ritrovi purtroppo a vergare graffi rabbiosi, con tinte nere, distribuite a caso con spatole a punte scheggiate, in grassetto feroce: ne deriva allora una tela cupa quando non lacerata, un urlo più che una immagine, un vero disastro, e la conclusione disperata e disperante, in alterna misura, è conseguenziale. Ancora, peggio ancora, è il non disegnare nulla, assolutamente nulla, non aggiungere niente, il resto di niente: questa è l’ignavia di comodo, quella che ti assolve, come se non fosse di nostra stretta pertinenza, quasi avessimo già dato abbastanza. Quanto ne deriva è lasciato assolutamente al caso, e se stramberie, insensatezze, fatti insoliti ne derivano, non è cosa di cui preoccuparsi, sono solo ragazzate. O invece tragedie.
Amare è una cosa seria, crearsi una famiglia con amore lo è ancora di più, è un genere di amore cui si cumulano ai sentimenti i bisogni pratici da soddisfare, almeno quelli primari, e questo ti assorbe, spesso completamente, ti porta via tempo e testa da dedicare alle attenzioni. Ed a non farsi distrarre. La famiglia contempla figli per discendenza diretta: le linee diritte pretendono esempi lineari, non rette spezzate, ma coerenti, esemplari, equazioni chiare e verificate.
Elementi discordanti disorientano, predicare bene e razzolare malissimo svia, confonde, disturba già dall’origine, nel grembo materno, figuriamoci poi in epoca delicatissima e vulnerabile quale sa essere l’adolescenza di chiunque, allorché magari l’incoerenza dell’esempio genitoriale è palese. Particolarmente gli uomini, i padri, chissà perché proprio ai tempi dell’adolescenza dei figli eccellono nel porgere questa distorta immagine che risulta dal loro agire, anche il grembo paterno, perciò, ha le sue belle responsabilità in proposito, fallendo nel ruolo precostituito di guida, di esempio, di rettitudine di mente e di azione.
A lungo andare, certe circostanze si palesano per quello che sono, infidi tradimenti, uno sconquasso nella fiducia ciecamente riposta e vilmente tradita, un estremo insulto, un oltraggio che nell’insieme provocano disorientamento, discrepanze, disturbi dell’anima, fenomeni che si manifestano poi in disordine inverso, una cosa ed il suo esatto contrario, come la bulimia o l’anoressia, che si rivelano in tutta la loro drammaticità appunto nell’epoca più delicata e vulnerabile tra le età umane, l’adolescenza. Disordini alimentari che risultano tanto diffusi tra i giovani in quella stagione della vita, tali da diventare oggetto di discussione nelle trasmissioni televisive rivolte a quel target, spesso stolidi rotocalchi che spettacolarizzano, sotto una veste amichevole o di servizio, i tanti guasti arrecati all’anima da un’incuria genitoriale.
L’adolescenza, la primavera della vita, che per qualcuno primavera non è esattamente, diviene allora l’età in cui puoi avere tutto, ma in realtà non hai nulla, nemmeno il resto di niente, sei solo e soltanto una ragazza senza niente, che prova inutilmente a riempire le proprie carenze con compulsiva ossessione, con veemenza, una Signorina Ancora, ancora e ancora, senza fine.
Adele è una giovane che ha vissuto la propria adolescenza in maniera tanto particolare da ridefinirla “adelescenza”. Originaria di un piccolo paese di una piccola provincia, come dire un borgo vicino ad una Piccola Città, è cresciuta come tanti suoi coetanei con i sogni ed i desideri tipici delle sue coetanee, gli studi, gli amici, i pochi svaghi, le trasmissioni televisive che vanno per la maggiore negli anni in cui si svolge l’azione, il mito per la Grande Città, la metropoli oltre la provincia, quindi.
La ragazza è la prima figlia, ha due fratelli gemelli minori di lei, e la sua è una famiglia speciale del paese, poiché una volta il papà, allora piccolo bottegaio di alimentari, a malapena sbarcava il lunario, portava avanti la sua famiglia con fatica, privazioni e sacrifici, tanto che erano conosciuti come una famiglia tanto povera da non possedere nulla, quindi, dei ”senzaniente”, appunto, come erano additati con una punta di velato disprezzo. Senonché il padre, a prezzo di fatiche e sacrifici, riesce a fare il gran salto sociale, si ritrova padrone di un supermercato, ma il palese miglioramento economico suscita sempre inevitabile livore, gelosie ed invidie nelle piccole, e pettegole, comunità, per cui il disprezzo non accenna a diminuire, viene semplicemente celato. Le cose si ripercuotono sulla famiglia, prima sul genitore, provocandone un sottile ma incisivo cambiamento, poi con strazio e dolore in Adele, disturbandone la vita. Paradossalmente, Adele farà dei suoi disturbi materia professionale, finendo per andare a vivere nella Grande Città, come nei suoi desideri giovanili. E divenendo madre di una bimba, Frida, concepita senza genitore, con inseminazione artificiale all’estero. Una famiglia completa però richiede dei ruoli precisi, delle presenze fisse: Adele prova la chiusura del cerchio con Nicola, un medico già legato con moglie e figli. Sono i giorni del primo lockdown, la grande città densa di traffico, di gente, di animazione, si chiude in casa, ognuno resta solo e staccato dai suoi affetti; ma la reclusione forzata è invece un’occasione, una opportunità, un’apertura per Adele, che realizza che quanto in effetti vive, è una replica, una rivisitazione mal riuscita, un buffering che rischia di protrarsi all’infinito, impedendo il normale scorrere dello streaming della corretta crescita della sua figliola:
“…quella fuori dalla finestra, adesso ero io.”
Frida, la sua bimba ha bisogno di ben altro che cure parentali: non quanto può dare un amico dottore, ma di un balsamo che è panacea universale, l’amore. Amore quello vero perché esclusivo.
Chiara Gamberale lo afferma forte e chiaro, in bella grafia: con amore, nessuno è un senza niente.
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