Dettagli Recensione
p. 355: "Chi non è innocente è colpevole"
NON LUOGO A PROCEDERE di CLAUDIO MAGRIS (2015).
L’altro giorno mi è capitato di vedere l’immagine di una povera pecora vicina a soccombere a causa dell’enorme vello che nessuno negli ultimi anni le aveva tosato, e mi sono detta: “Ecco, anche questo romanzo di Magris starebbe molto molto meglio se fosse … beh, diciamo sforbiciato!”. Sì, perché gli ingredienti per un buon o persino ottimo romanzo ci sono: maestria linguistica, una storia originale, solide conoscenze storiche. Però il carico di parole e di elementi che entrano nella narrazione mi è sembrato eccessivo - cosa che non mi viene in mente di dire leggendo Hugo Balzac Zola Proust – tanto da spegnere l’emozione, come peraltro ha segnalato chi ha già espresso la sua opinione su quest’opera. O forse bisogna semplicemente essere lettori più pazienti di me.
Cosa racconta Magris in questo romanzo? Racconta, pur senza mai nominarlo se non nella Nota finale (“LUI” nel romanzo), LA STORIA (VERA) DI DIEGO DE HENRIQUEZ, però nel contesto di questa storia particolare racconta tanti altri destini legati a Trieste, la città natale dell’autore, parte, fino alla fine della Grande guerra, di un impero praticamente mondiale, quello austro-ungarico, che si estendeva dall’Europa dell’Est al Nuovo Mondo, destini che dovrebbero formare un mosaico in cui appaia che tutto è interconnesso da sempre, ma anche che tutto è guerra (però … “giocare alla guerra. Giocare per non farla” p. 36), però poi in particolare che i Triestini hanno voluto rimuovere le loro responsabilità nei confronti degli ebrei negli anni del nazifascismo. Un po’ tante cose, mi sembra, troppe per integrarsi coerentemente fra loro.
Già la figura storica di Diego de Henriquez, il protagonista, offre molta materia per farne un romanzo. Nato a Trieste nel 1909 “da una famiglia di ascendenza nobiliare spagnola e di tradizioni legate alla Marina Imperiale Asburgica” (wikipedia; vedi anche p. 28-29), fin dagli anni della Seconda guerra collezionò materiale bellico - dai panzer alle foto ai libri di guerra - in vista della fondazione, che realmente ebbe luogo dopo mille difficoltà, di un “MUSEO DELLA GUERRA PER LA PACE”, a cui egli sacrificò tempo denaro e salute. Leggendo la storia di de Henriquez nel sito del Museo, constato che Magris non si discosta dai fatti nonostante la rivendicazione della libertà di invenzione del romanziere contenuta nella Nota: realmente de Henriquez dedicò la sua vita al Museo, realmente vi fissò la sua dimora, realmente morì nell’incendio del 1974, che costituisce il finale del libro e non può non evocare il finale di “Autodafé” di Canetti anche se il senso è profondamente diverso (nel rogo di Magris muore colui che vuole testimoniare della colpa della città e con lui bruciano i taccuini coi nomi dei colpevoli). Poi è chiaro che ogni biografia richiede immaginazione. Nel caso di quest’uomo, poi, ce ne vuole parecchia ...
Per aiutare a farsi un’idea della complessità della visione di Diego de Henriquez e di come dunque Magris abbia dovuto far lavorare la sua immaginazione di romanziere per parlarne, trascrivo dal sito del Museo il passaggio seguente, perché nel romanzo “lui” esprime ripetutamente questi concetti: “Diego de Henriquez arrivò a sviluppare una concezione del tutto particolare, di non facile comprensione, e cioè quella dell’abolizione della morte e del male dal futuro e dal passato tramite lo svincolamento dallo spazio-tempo o inversione del tempo. (...) Leggendo la storia scritta si diveniva compartecipi di fatti paralleli che (...) assumevano la connotazione della contemporaneità”. Se anche si legge, sempre nel sito del Museo, come Diego de Henriquez denominò il Museo per un certo periodo (e quelle parole si ritrovano tali e quali nel romanzo), si vede bene che si tratta più di “illuminazioni” che di idee cartesiane, che Magris interpreta, giustamente a mio avviso, come visione sincretica o analogica - non so quale delle due parole è da preferire - che stabilisce paralleli fra cose apparentemente lontane fra loro, come per esempio tra una vittoria del Praga sul Borussia Dortmund e la vittoria del ceko Ziska sull’imperatore Sigismondo a Vitkov 519 anni prima (p. 129) o tra la cimice e il carro armato sovietico T-34 e tra le cimici e gli zingari e gli ebrei (p. 211-212).
Il problema, se così vogliamo chiamarlo, è che questo pensiero sincretico o analogico Magris lo fa suo sia accogliendo nel romanzo molteplici storie (per esempio quella dello scienziato praghese A. V. Fric e dell’indio paraguayano Cervuis Piosad Mendoza, quella di Otto Schimek, quella di Massimiliano del Messico, quella di Luisa di Navarrete) sia stabilendo lui stesso paralleli fra fenomeni di natura diversa, due fenomeni sopra tutti gli altri: LA SHOAH E LA TRATTA DEGLI SCHIAVI AFRICANI.
Come riesce Magris a riunire questi due fenomeni così lontani tra loro nel tempo? Mediante il personaggio (fittizio) della giovane donna incaricata di prendere in consegna da “lui”, per sistemarlo, il materiale da esporre nel futuro museo: LUISA SIMEONI BROOKS (a proposito di questo nome ho avuto anch’io la mia brava illuminazione: Vuoi vedere - mi sono detta - che Magris aveva in mente “lui+sa”? Ma vabbè, l’ho sparata lì), figlia di una donna la cui madre si salvò dal lager forse per aver denunciato altri ebrei, e di un soldato americano di colore, e quindi discendente di africani deportati in America. È lei che racconta di de Henriquez alla terza persona, ma talvolta è il cosiddetto narratore esterno o onnisciente o anche de Henriquez stesso, di cui Luisa trascrive i taccuini, autorizzata comunque a scrivere di lui dicendo “io” …
Come si vede, il discorso è fin troppo ampio se non ingarbugliato: da una parte c’è la condanna della guerra, attraverso la descrizione minuziosa e certo non neutra dei materiali bellici di ogni genere da esporre nel Museo, sala dopo sala, dall’altra parte c’è la denuncia di una realtà particolare, ossia l’ignavia, il collaborazionismo e le complicità anche postbelliche fra nazisti, Triestini collaborazionisti o semplicemente compiacenti e anglo-americani, con tanto di nomi e dettagli storici, giacchè Diego de Henriquez ricopiava per davvero le scritte che gli ebrei rinchiusi nella Risiera scrivevano sui muri e che poi furono cancellate con un’opportuna mano di calce ... Però non ho abbastanza conoscenze per dire in che misura Diego de Henriquez fosse impegnato in una sua guerra personale contro la rimozione delle responsabilità dei Triestini dopo la guerra. Ora, a proposito della sovrabbondanza di parole cui accennavo più in alto, ho avuto un dubbio maligno: non è che Magris in qualche modo voglia compensare con un profluvio di parole peraltro il più possibile icastiche (notare anche la frequenza dell’immagine della mazza) il fatto che denunci ben settant’anni dopo la guerra l’ignavia dei suoi conterranei che volsero la testa dall’altra parte o addirittura ci lucrarono quando tanti vennero rinchiusi e bruciati nella Risiera di San Sabba? Anche perchè ho avuto fin da subito l’impressione che le sue parole siano più sarcastiche che sinceramente indignate per quanto accadde in quegli anni, e che insomma l’opera non sia da lui veramente sentita, ma risponda a un suo bisogno di scrivere. Comunque sia, tornando a quanto dicevo all’inizio, è un peccato che l’autore abbia voluto mettere così tante cose in questo libro, perché le pagine in cui trova la giusta misura, come quelle del capitolo Storia di Luisa VIII, sono bellissime e ti dici : “Caspita! É proprio così, ha ragione!”.