Dettagli Recensione
Livia, Federcia, io scrittrice
«Funziona in modo differente per ciascuno di noi in base al percepito, e anche alle caratteristiche fisiche. La stessa esperienza ha tante versioni quante le persone che l’hanno vissuta.»
Tre le figure femminili che si intrecciano in quest’ultima fatica a firma Teresa Ciabatti. Il loro è un legame che nasce e si sviluppa in modo indissolubile in quelli che sono gli anni formativi dell’adolescenza e che le portano a vivere anche gli anni successivi in modo diverso, sempre legate dal legame, sempre legate da quel che accade.
Conosciamo Livia, colei che è la bella, colei che è – passatemi il gioco di parole – la più amata e – anche – la più desiderata. Ella nasconde un’ombra negli occhi e nell’anima, un buio che nessuno riesce a percepire ma che è parte di lei. Anche quando il peggio e il più impensato accade, anche quando il peggio e il più impensabile delinea e segna per sempre quello che sarà il suo divenire.
Abbiamo ancora Federica, che sogna il suo riscatto, che cerca la sua via di fuga, che cerca il suo posto nel mondo, che cerca. Semplicemente cerca.
E infine abbiamo la voce narrante, la scrittrice. Colei che cerca a sua volta di essere accettata per quel che è e che nel crescere diventa una figura con tanti scheletri nell’armadio, tanti fantasmi che non le consentono di far pace con quel che è stato.
Tre donne, tre realtà, tre voci, un avvenimento principale che colpisce direttamente Livia, per effetto, anche loro, per effetto le famiglie al loro interno. Perché Livia, la più amata, la più desiderata, la più invidiata, la più sparlata, è anche colei che a quell’adolescenza resterà sempre rilegata sia che vesta i panni della zia che non.
Una narrazione che si ricostruisce nel tempo alternando fasi temporali che oscillano tra presente e passato è “Sembrava bellezza” di Teresa Ciabatti. Uno scritto che non teme di rivelarsi per quello che è un viaggio introspettivo e prima ancora una ricerca di catarsi, di assoluzione. Per il dolore, per la rabbia, per la frustrazione, per tutti quei sentimenti contrastanti che chiedono di uscire, che faticano a coabitare tra loro, che chiedono di essere espiati.
Fulcro dell’opera è ancora quella costante ricerca di bellezza, concentrata nella figura di Livia, ricercata anche dalla protagonista nel corpo, nel vivere. Nel disequilibrio di una fisicità, nell’adorazione di quel che l’altro si pensa abbia, nel non riuscire a far pace con quel che si ha ma che eppure sembra non bastarci mai.
Un passo successivo a “La più amata”, una maturazione di questa, un gradino che si somma al percorso narrativo ideato e portato avanti dalla scrittrice che ne conferma le capacità e ne risalta la voglia di trattare tematiche altrettanto forti e dirompenti.
Uno stile che trattiene e respinge, per quanto più incisivo che mai, per quanto tagliente e graffiante. Un narrare che alterna ritmi che accelerano e che rallentano, che scalano la marcia a seconda di quel tassello che viene introdotto o approfondito. Una narrazione che può quasi sembrare un esercizio di stile e che per questo può far amare o meno l’intera opera. Anche questa è una capacità ricorrente della Ciabatti che, in ogni caso, arriva, disarma, spiazza e anche quando lascia dubbi e semina riflessioni, smuove e obbliga a interrogarsi.
«Anche adesso parla a me, ma sta parlando a se stessa. Pensiamo di avere tanto tempo a disposizione, dice. Ci crediamo eterni, vivi come se fosse l’ultimo giorno, mi lascio trascinare.»