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Cuori invisibili
“Quando tornerò” di Marco Balzano è un romanzo familiare a tre voci, quello di una giovane madre della Romania, Daniela, che vive e lavora come badante a Milano, e i suoi due figli, una ragazza ed un ragazzo, rimasti nel paese natale; la prima, Angelica, appena alle soglie della maggiore età, il secondo è Manuel, un ragazzino che sta appena affacciandosi sull’adolescenza.
Si parlano, si raccontano, si dicono: prima il ragazzo, poi la madre, infine Angelica.
Questo, perciò, è un testo sonoro, non è un audiolibro e però è un libro da sentire, di poche parole all’inizio, ma poi quasi subito progressivamente ingravescente di dialoghi e discorsi, un romanzo di cui porsi in ascolto in religioso silenzio, da orecchiare tenendo fissi gli occhi sulla pagina come fossimo assorti sul labiale.
Marco Balzano, già autore dell’intenso e fortunato “Resto qui”, stavolta fa da fonico, registra suoni e dialoghi, li modula, ce li porge e ce li fa ascoltare con decisione senza omettere alcuna nota, anche le più stridule: il suono è invisibile ma concreto, come certe persone che nessuno nota eppure esistono, vivono con noi e intorno a noi, ci badano e si prendono cura di noi, dei nostri nonni, dei nostri cari anziani e malati. Sono cuori invisibili, ma cuori vivi, che battono, che palpitano, che stentano.
Cuori invisibili, resistenti e resilienti.
Balzano raccoglie le loro pulsazioni, il ritmo, gli sbalzi pressori, più spesso le fibrillazioni o le aritmie, e lo fa con intensa e diretta partecipazione empatica, è evidente dal modo, la gentilezza, la delicatezza con cui sistema i microfoni a portata di voce dei suoi protagonisti, ma allo stesso tempo dosando perfettamente il bilanciamento e trascrivendo con cura quanto registrato.
Una scrittura asciutta, dialogata, che estrinseca nel parlato azione e pensiero, condotta ed emozioni, eventi e sensazioni, direi davvero un ottimo elaborato, più sentito e maturo del precedente libro.
Come dire, risaltano qui solo le voci essenziali della famiglia protagonista e narrante, poiché la figura paterna, che pure c’è e che a tratti fa sentire la sua voce, per quanto flebile, non conta, è ininfluente, semmai un impiccio più che altro, nel racconto non ha la stessa incisività degli altri componenti, madre e figli. Non può averla, almeno questo genitore, una sorta di arcaico e anacronistico padre padrone, benché giovane d’età, figura che ancora sopravvive e non è una eccezione per i luoghi di cui si parla, l’entroterra rurale dei paesi dell’est europeo dopo la caduta dell’impero sovietico.
Evento storico e politico disastroso, che ha trasformato la forza motrice dei paradisi socialisti del lavoro in un esercito di badanti. Due terzi dei quali sono donne.
Perciò l’ uomo di casa, il capofamiglia, brusco, rude, lavoratore poco specializzato e poco scolarizzato, dedito facilmente all’alcol come requisito indispensabile per la patente di “uomo e maschio”, ha poca voce in capitolo in questo libro che parla di forza, ma di quella vera, quella di certe donne come Daniela, la forza d’animo indispensabile per tollerare esistenze estenuanti, sfibranti, deprimenti. Talora il padre sembra un estraneo ai suoi stessi congiunti, più che un fantasma, una persona assente anche quando è in presenza, può ammaliare la figlia e il figlio, forse, data la loro età, salvo non rendersi mai conto della realtà delle cose, posticipa qualsiasi scelta e decisione, è inconsapevole ed irresponsabile ad un tempo. Ha un vissuto fuggevole ed estraniante dalle vicende e dai pensieri del resto del gruppo, questi ultimi tre legati invece da un intreccio complesso in cui coesistono sentimenti di abbandono, di nostalgia, di solitudine, di lotta per la sopravvivenza, e cocciuta disperazione. E sogni, desideri, ambizioni comuni ed usuali.
Un romanzo familiare, e sarebbe da dire meglio un dramma familiare, se non fosse che quanto descritto non viene vissuto come un dramma, ma quasi come un destino ineluttabile.
Per quella famiglia, e per tante come loro, il penoso trascinarsi dell’esistenza rincorrendo i bisogni primari è la norma, è nell’ordine delle cose. Questo è un libro, asciutto, duro, ma estremamente reale.
Si racconta qui della fatica dell’esistenza, del logorio di certe esistenze per vivere, è infatti una storia di migranti, di moderna schiavitù travestita da migrazione, di esodo forzato.
Una normale famiglia romena, di estrazione rurale, si ritrova quasi da un giorno all’altro sul baratro del fallimento. Il capofamiglia perde il lavoro, unico sostentamento del nucleo familiare, non riesce a trovarne un altro, e come tipico di quelle popolazioni dell’entroterra arretrato, risolve con l’alcool la sua depressione ed incapacità di agire. Tocca alla madre, Daniela, come tante altre, se non tutte, le donne della regione, trovare un’attività che permette al resto della famiglia di sopravvivere, al marito disoccupato di procurarsi i materiali edilizi necessari per sistemare l’abitazione, soprattutto per permettere ai figli di continuare a studiare. Fuori dal paese, naturalmente. In Italia, a Milano.
Un giorno all’improvviso. Partendo di nascosto dagli stessi familiari, di notte come un ladro.
Perché è inutile restare a fare la guardia ad un mondo che muore.
Un viaggio su un autobus, certo non su un barcone alla deriva nel mare a rischio della vita, ma non meno inammissibile, per giungere in un’altra nazione, in un’altra città con lingua diversa, usi e costumi insoliti e discordi.
Per esercitare la professione di badante.
“…questo è il lavoro che si trova, questo è il paese dove siamo nati, e questo è il tempo in cui ci tocca vivere, non l’ho scelto io…”
Un lavoro duro, difficile, estenuante, deprimente per chi magari ha altri titoli e qualifiche più elevate, per di più svenduto a prezzo irrisorio: la maggioranza della popolazione del mondo occidentale benestante, gode di alimentazione, cure mediche e conforti tali da allungare l’esistenza, pertanto è anziana. Gli anziani necessitano di cure, le cure per definizioni sono prerogativa delle donne, le donne dell’est sono in condizioni disperate, al punto di accettare una modesta retribuzione, che nessun occidentale accetterebbe, per prestare queste cure, e si prestano.
A caro prezzo, ma un prezzo in capo a loro, non ai datori di lavoro.
“Le prime parole che ho imparato in Italia sono stati i nomi delle malattie, i principi attivi dei farmaci, le parti inferme del corpo. Quando me ne rendevo conto impietrivo.”
Vengono per prendersi cura, ma sono cuori invisibili, nessuno si prende cura di loro, nemmeno quelli rimasti a casa e che dai proventi dei loro sforzi traggono soldi, sostentamento, mantenimento agli studi, videogiochi, gadget tecnologici, ricariche telefoniche e tutto quanto serve.
Solo che per gli uni e gli altri si perde di vista cosa effettivamente serve.
Daniela lavora instancabilmente perché la famiglia abbia cose, e si perde non nella fatica che costa procurare cose ma nella tristezza della solitudine, che a sua volta le restituisce solo una cosa, la depressione:
“…la mia vita, finche non ritornerò a Radeni, sarà sempre veder morire dei vecchi, pensavo.”
”Quando tornerò” non è solo il titolo del libro, o un auspicio di tempi migliori, è una chimera, è una nenia che Daniela si ripete come un karma per trovare in sé forze residue e motivazioni sufficienti per continuare in un’esistenza, infine, di mero sfruttamento, che inevitabilmente si tramuta in un “mal d’Italia”, il limite ultimo dei muli da soma sfruttati fino all’inverosimile.
Per vivere non basta una retribuzione per quanto modesta e irregolare: serve altro, serve affetto, tenerezza, calore, attenzione, cura reciproca, supporto, conforto, vicinanza.
Tutte cose che la famiglia, gli affetti, ti assicurano: vale per Daniela “reclusa” a Milano come per Angelica e Manuel bloccati in Romania e pervasi di nostalgia struggente per la madre e consunti per il desiderio spasmodico di un corso diverso della loro esistenza.
Dovrà però tornare a forza, Daniela, a seguito di un evento straziante: Manuel ha un incidente con il motorino, giace in coma. Così la donna ritorna al suo paese in Romania, Redeni, giace per mesi al capezzale del figlio, e gli parla, gli bada, lo assiste, si prende cura di lui, questa volta non è una badante, ma solo una madre, gli sta vicino con cocciutaggine ed amore senza fine.
La sua retribuzione stavolta non sarà irrisoria e in nero, come un’elemosina per vivere, ma inestimabile è il riprendersi parte delle esistenze dei figli che si era persa, e che loro di lei avevano perso. Termina la storia infine come è giusta che finisca, con le esistenze di ciascuno che si separano, ancora una volta, ma con un appuntamento, un “quando tornerò” meglio delineato, dopo un percorso che è come il tragitto di un boomerang lanciato in aria.
Sfreccia in alto, raggiunge un culmine, poi vira e torna indietro: in quell’attimo devi essere pronto a saltare per riafferrarlo mentre torna e ricade, devi raccogliere il testimone.
Un bel libro, consiglio di leggerlo e farlo leggere; perché è ben scritto, perché Marco Balzano dà voce a chi non l’ha, rende noti i cuori invisibili che non sono fantasmi ma sono concreti, umili, silenziosi, non badanti ma non badati che permettono ai visibili fortunati di vivere la loro concretezza agiata disinteressandosi della vil materia del vivere; infine, perché il messaggio racchiuso in un libro talora si comporta esattamente come un boomerang, sfreccia nell’aria, curva e torna indietro, e qualcuno salta per prendere il testimone. Deve saltare, ha un senso solo così.
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Federica
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