Dettagli Recensione
La responsabilità del desiderio
“Ero qualcosa di bianco. Vago alla pari di quel colore che a me sembrava la tinta del vuoto e dell’assenza cromatica. Come lui ero indefinita e indefinibile, la mia purezza - in base a quanto mi era stato insegnato - poteva coincidere solo con lo sgombero di ogni passione o desiderio. E come lui ero invisibile.
Ora so che non esiste via più disperata di quella che vorrebbe condurti alla perfezione”.
Fa sempre piacere scoprire una nuova voce della narrativa italiana contemporanea degna di nota e la Ruotolo è una vera scrittrice, perchè scrive come si suol dire,“dannatamente bene”.
Si sente che è un’autrice che sa muoversi con disinvoltura anche sul binario della poesia, perché “Quel luogo a me proibito” ha dei passaggi a tratti urticanti, graffianti, scomodi talmente son veri ed autentici privi di ogni forma di ipocrisia e se non fosse per quella sapienza delicata e sottile della scelta delle immagini e quel brevissimo e intenso lirismo di cui lei è capace, la storia in sè potrebbe essere facilmente liquidata come quella di una donna che si è autocastrata, per educazione ricevuta.
La voce narrante, senza nome, parla in prima persona, partendo dall’origine del male di famiglia, che lei chiama “vergogna” e che comincia con le vicende del nonno paterno e delle nonna materna. Il primo aveva macchiato il suo stato di onorata vedovanza, portandosi in casa una povera donna senza carattere per poi conviverci in regime more uxorio, trattandola come uno straccio da buttare via dopo l’uso e la seconda invece, aveva cresciuto da sola, senza un uomo al suo fianco, la madre della protagonista, senza darle mai un briciolo di affetto: una madre e poi una nonna incapace di slanci verso la figlia e verso i nipoti, interessata unicamente a se stessa.
Questa è la tara di famiglia che l’io narrante quasi si autoimpone di espiare, evitando di indugiare in qualsiasi forma di piacere o di divertimento, conducendo, sin da preadolescente un’esistenza parallela a quella delle sue coetanee.
Le prime venti pagine sono storie di non-amore, di disaffezione che colpisce anche gli animali, vittime al pari dell’io narrante: non c’è un briciolo d’amore per niente e per nessuno. Dura la legge della vita.
“Chi siamo veramente, la reale misura dell’umano, non sono dati dal rapporto tra pari. È il riguardo per chi è più debole a qualificarci. Il nostro essere perbene è dimostrato dallo scrupolo con cui tocchiamo chi è diverso, svantaggiato oppure semplicemente nel bisogno. (...)”
I primi tentativi di approccio con l’altro sesso sono ostili e fallimentari da subito, ma la protagonista era stata messa già in guardia da sua madre:
“Non perderci tempo e testa appresso ai maschi, o la vita non sarà più roba tua”.
Quella stessa madre le diceva che il corpo era “un animale da tenere a bada” e che “troppa vita fa male”, bisognava evitare vestiti ed atteggiamenti che eccitassero pensieri impuri negli altri.
A parte indicare vergogna e disonore dappertutto, cambiare canale alla tv in certi momenti dei film, i genitori sono assenti, “hanno delegato ai libri” l’educazione all’amore e al sesso. Prima di avvertire il bisogno di vita, lei si era già allenata alla rinuncia, guardando le altre coetanee flirtare con i ragazzi, qualcuna di loro addirittura rimane incinta e abbandona la scuola dell’obbligo.
“Quel luogo a me proibito” è la storia di una donna quarantaduenne che cerca di ricostruire tramite i dettagli di alcuni ricordi del passato la radice di quella sua paura di amare, di conoscere il proprio corpo, quell’incapacità di donarsi totalmente ad un uomo che la desidera per quello che è. Quell’uomo è Andrea che risveglia in lei la consapevolezza che esista qualcosa al di là di quello che aveva creduto potesse meritare. Un percorso doloroso e travagliato, a volte disturbante, che ti graffia dentro e mai ti accarezza. Una scrittura primordiale e sensuale che sa concretizzare le immagini solo suggerendole. Ma il libro non è romantico, nè sentimentale. È la storia di un trauma, di un dramma.
L’ambientazione è poco rilevante, viene nominata Napoli per indicare la grande città lontana, ma l’opera della Ruotolo non ha alcun cenno di regionalismo folkloristico (che tanto piace ai lettori stranieri) che possono essere suggeriti, ad esempio, da scrittrici come la Ferrante o la Dipietrantonio.
Un libro che lascia dei solchi nel lettore, nel bene e nel male.