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Diritto e Pietas
Un romanzo molto molto bello “Accabadora” di Michela Murgia. Una prosa asciutta, spesso aspra, direi, come certi meravigliosi paesaggi selvaggi della terra di Sardegna. Personaggi che evocano nei particolari il carattere e le usanze degli abitanti di quei luoghi che sopravvivono nel non facile tentativo di preservare l’orgoglio della propria cultura.
Due donne sono al centro di questo racconto, Tzia Bonaria e Maria, la vecchia generazione e la nuova che vivono come madre e figlia. È Maria, l’ultima figlia giunta per caso in una famiglia povera, la fill’e anima di Bonaria e come ogni fillus de anima nasce una seconda volta a una nuova vita. Amata sia pure con la durezza di cui è capace una vecchia sarta abituata ad affrontare tutte le difficoltà della vita senza cedere alla debolezza, Maria è intelligente e studiosa. Sente tuttavia che qualcosa di misterioso circonda la persona di Tzia Bonaria, non sa spiegarsi certe sue uscite notturne che precedono sempre la morte di qualche conoscente o amico in fin di vita. Il mistero si dileguerà dinanzi agli occhi di Maria, quando dovrà affrontare il dolore per la morte dell’amico Nicola Bastiu mai ripresosi dopo l’amputazione di un arto dovuta a una cancrena seguita a un colpo di pistola che lo aveva raggiunto in una notte in cui cercava di incendiare il campo del vicino che aveva osato spostare il suo confine a danno della sua proprietà.
Maria non riesce ad accettare questo ruolo di “accabadora” di Tzia Bonaria. Mettere fine alla vita di un essere umano è terribile e inaccettabile per lei. E certo ci vorrà del tempo e ancora tanto dolore perché possa capirne tutto il significato.
Un tema assai complesso questo che la Murgia affronta nel suo romanzo, un tema che implica considerazioni etiche e che riguarda il dibattito attuale sull’ammissibilità giuridica dell’eutanasia.
È il personaggio stesso di Tzia Bonaria che testimonia quanto sofferta sia la sua decisione di agevolare il trapasso di chi soffre, di chi in effetti sopravvive solo per un accanimento terapeutico. Ma è proprio in contrapposizione a questi casi che si pone il destino di Nicola Bastiu, il quale desidera la morte solo perché non ha la forza e il coraggio di affrontare una vita da disabile, in pieno possesso delle sue facoltà intellettive e di abilità fisiche parzialmente ridotte. È qui il punto centrale del romanzo. Il dibattito sulla legittimità del fine vita dovrebbe sempre basarsi su una valutazione globale dello stato in cui si trova chi chiede l’eutanasia o un suicidio assistito. Difficile condannare o assolvere. Ogni caso è singolare. Una legge rigida e universale non può risolvere ogni problema. Maria capisce tutto ciò quando si trova al capezzale di Tzia Bonaria morente e ricorda le sue parole: “Non dire mai: di quest’acqua io non ne bevo.” Il destino si è compiuto. La giustizia non può mai ignorare il diritto a vivere e morire con dignità, ma può essere intransigente con chi potrebbe rendere dignitosa una vita dimezzata.
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La scrittrice mi era e mi è assai simpatica, ma questo breve romanzo m'è parso un iniziale racconto abbastanza compatto che è stato annacquato per ricavarne un romanzo tramite aggiunte posticce e letterariamente non riuscite, come la stucchevole parte finale ambientata in Piemonte e il capitoletto di sapore troppo verghiano, una stonatura, sull'amicizia tra la bambina e il coetaneo.
Sono poi stato infastidito dalla tempestività della pubblicazione nel bel mezzo del dibattito sull'eutanasia.