Dettagli Recensione
il giardino dei ciliegi di La Capria
INTRODUZIONE. Il romanzo di Raffaele La Capria FERITO A MORTE (Premio Strega 1961) consta di dieci capitoli, di cui i primi sei - praticamente due terzi dell’opera - richiedono un grosso sforzo di comprensione da parte del lettore perché sono una sorta di copione teatrale fatto di sole battute e monologhi (interiori ovviamente), privo di indicazioni sceniche e temporali, in cui - soprattutto - il nome del personaggio che parla o pensa è stato soppresso, e i fogli scompigliati in modo da sovrapporre i vari livelli temporali dell’azione, ammesso che di azione si possa parlare. In particolare, i primi sei capitoli, tranne i pochi passaggi in cui è un “narratore esterno” a raccontare, consistono essenzialmente in una fittissima serie di scampoli di conversazioni che hanno luogo in epoche diverse fra vari personaggi, nella quale si inseriscono senza soluzione di continuità i pensieri di alcuni di loro (soprattutto Massimo, il personaggio principale, e in misura minore Gaetano). Per lo più il lettore può capire chi parla a chi, cosa dice esattamente e a cosa si riferiscono i pensieri riportati, cercando indizi nella pagina o in altre pagine, e a dire il vero ammetto di non avere capito compiutamente persino un punto su cui La Capria torna ripetutamente. Gli ultimi quattro capitoli, invece, sono strutturati in modo chiaro (è chiaro chi dice cosa) e il lettore è almeno un po’ ripagato degli sforzi fatti per capire quanto precede. Insomma, lettura faticosa, benchè LA LINGUA sia elegante, tranne - ovviamente :)) - laddove La Capria riporta il discorso orale dei suoi personaggi.
IL TEMA del romanzo è IL DECLINO, MORALE E FISICO, DI UNA CERTA NAPOLI E LA SCOMPARSA DI UN’EPOCA A SUO MODO GLORIOSA DELLA VITA DI QUESTA CITTÀ, tra gli anni in cui il jet set internazionale frequentava Capri e Ischia e gli anni del boom economico, essendo comunque la città rappresentata attraverso UN SOLO AMBIENTE, che dirò più sotto, che non è affatto quello popolare come per esempio ne “La pelle” di C. Malaparte. Declinato, questo tema del declino, in modo piuttosto intimistico nei primi sei capitoli e piuttosto socio-politico negli ultimi quattro, i quali costituiscono un amaro pamphlet contro l’affarismo che ha dato il colpo di grazia finale ad una città illustre benchè in sfacelo e ad un mare che prima - “jadis”, scriveva François Villon nella ballata “des dames du temps jadis” - traboccava di vita e di bellezza. E a proposito di mare, quello di La Capria ne è un omaggio da innamorato.
LA TRAMA, SE COSÌ SI PUÒ DEFINIRE. Nei primi sei capitoli La Capria illustra, nei modi che ho detto nell’introduzione, il modo di vita dei frequentatori del “Circolo”, in cui i rampolli (le rampolle no: le donne sono preda, il segno del successo) di famiglie ormai decadute dall’originario rango socio-economico o anche nobiliare benchè ancora abitino antichi famosi palazzi, nonchè coloro che ruotano intorno a loro, ammazzano il tempo chiacchierando, guardando i motoscafi che sfrecciano sullo specchio di mare antistante, registrando le presenze femminili a bordo, un pochino giocando a tennis e soprattutto giocandosi al poker gli ultimi soldi propri o i soldi del socio o dell’amico ricco o addirittura della vecchia domestica che “li ha visti nascere”. Tutti rivaleggiano contendendosi il favore dei pochi veramente ricchi (da sfruttare) e il favore dell’uomo più ammirato del momento, quello capace di rendere indimenticabile una serata con la sua spavalderia ed è percio ricercato dai ricchi e dalle belle, le quali belle però, molto più concrete dei maschi, sposano il partito più danaroso ... Tra tutti questi uomini ce n’è uno, Massimo (La Capria giovane?), che ha uno sguardo critico sugli altri pur passando le sue giornate con loro, sempre sognando di “partire” e sempre rinviando la partenza. Colto e incline all’introversione, dapprima egli condivide la repulsione per quel modo di vivere col giovane comunista Gaetano, salvo infine prendere le distanze da lui perché in realtà troppo intimamente legato a quel tempo della giovinezza, il tempo della sensibilità esacerbata e delle giornate trascorse immergendosi nell’incanto di un mare pieno di pesci su cui si affacciano ville patrizie e palazzi barocchi che via via si sfanno. Negli ultimi capitoli apprendiamo che Massimo è riuscito dopo tanta esitazione a strapparsi da Napoli, non però per trasferirsi a Milano, luogo della razionalità opposto a Napoli-Foresta Vergine dove si è trasferito Gaetano, bensì a Roma, la capitale della politica e dell’affarismo dove chissà ... Tornato occasionalmente a Napoli, nell’accogliente alveo familiare, attraverso i suoi ricordi e le conversazioni con gli amici di un tempo (è la materia degli ultimi quattro capitoli) scopriamo cosa ne è stato dei tanti protagonisti della sua vita di ieri, quando i sogni - e tra tutti il sogno di un amore romantico- e l’ingenuità erano possibili. Persino Sasà, idolo di uomini e donne di allora, si è ridotto a ridicolo vieux beau, mentre l’antico Palazzo Medina si trasforma in residence di lusso per ricchi parvenus. LA GIOVINEZZA È SVANITA, E NEANCHE I SOGNI SONO PIÙ QUELLI DI UN TEMPO.
Il TITOLO “Ferito a morte” mi sembra francamente attagliarsi poco ad un uomo che, come avviene a tutti o quasi, vede svanire i sogni della giovinezza ma resta in vita e conduce una vita tutto sommato “normale”.