Dettagli Recensione
Tutto si ripete, ma poco si equivale
È il romanzo in cui tutto si ripete, ma poco si equivale. Gli esempi abbondano, ne scelgo due: il falò del cadavere di Santina ripropone un rituale arcaico, però in questo caso brucia una spia fascista e non un innocente agnellino e dunque emerge il principio di giustizia umana, non del gesto superstizioso; il rogo della Gaminella di Valino è un atto di protesta contro lo sfruttamento dei contadini, non contro gli dei. Pavese invita, perciò, non allo scoraggiamento fatalista ma ad un cauto e fermo intervento sulle dinamiche dell’esistenza individuale e collettiva. Scritto nel 1949 e pubblicato nella primavera 1950, La luna e i falò propone tutte le classiche opposizioni costitutive della narrativa di Pavese: città-campagna, infanzia-maturità, virilità-femminilità, passato-presente, azione-contemplazione, struttura circolare-conclusione aperta. È funzionale, in tal senso, il resoconto di viaggio per mettere a confronto il luogo e il tempo di partenza e di arrivo con nel mezzo il processo mentale del viaggiatore che rammenta il passato e lo paragona al presente. Chi è il viaggiatore? È Anguilla, un bastardo cresciuto sulle colline delle Langhe e successivamente emigrato. Decide di tornare per una breve villeggiatura estiva nei luoghi natii. Durante il soggiorno vicino a Canelli, egli scende all’inferno e trova solo fantasmi sanguinanti. Comprende di aver fatto bene ad emigrare sottraendosi all’arretratezza economico-sociale, alla passività cupa e alla disperazione cieca delle terre in cui era cresciuto. Pertanto, Anguilla soffre al ritorno, soffre nel rivedere le abitazioni in cui è divenuto grande (la Gaminella e poi la Morra), ma nel contempo si apre un varco di libertà: è un uomo giusto perché ricerca il benessere personale e parallelamente gli interessi di emancipazione collettiva. Emblematico è il rapporto che instaura con il giovane storpio di nome Cinto, che viene salvato da Anguilla dal circolo vizioso in cui si trovava coinvolto che era del tutto simile a quello vissuto anni addietro dallo stesso protagonista. Anguilla, dopo circa vent’anni in paese, ne ha vissuti altrettanti in giro per il mondo (ha raggiunto anche l’America, ma l’America che ci propone Pavese è del tutto diversa da quella che ci aspetteremmo: le immagini a stelle e strisce, infatti, sono notturne e sono ambientate in un deserto ed in una pianura iper-coltivata). Torna nelle Langhe da vacanziero forte dalla sua occupazione da commerciante. Sa che, essendo un trovatello, sarà ancora più complicato il suo nuovo incontro con la comunità d’origine perché riaprirà vecchie ferite, accumulate nei primi vent’anni di vita ricchi di mortificazioni. Eppure Anguilla non demorde e reagisce. Come detto, cerca di invitare tutti i suoi ex compaesani a varcare la “soglia di Canelli”. Ad accoglierlo in paese c’è il suo grande amico d’infanzia, ovvero Nuto, sul quale erano riposte grandi aspettative in passato essendo sveglio ed intelligente. Invece Nuto non ha avuto la stessa intraprendenza di Anguilla e a distanza di due decenni non può far altro che la guida ad Anguilla in un territorio che non ha lasciato. Nuto, perciò, racconta quello che è accaduto in quel lasso di tempo, ma dimostra di non essere evoluto, anzi Pavese cerca di paragonarlo costantemente ad Anguilla per esaltare ancor di più il protagonista dell’opera. Anguilla, infatti, nel momento del suo ritorno non ha più nulla da apprendere, se non le spicce notizie di cronaca di paese, da Nuto, che invece nell’infanzia era stato un suo punto di riferimento imprescindibile. Si può, dunque, considerare la vacanza nelle Langhe un bilancio esistenziale complessivo di Anguilla: all’attivo c’è l’essersi mosso, al passivo non aver mai trovato l’amore. Non l’ha conosciuto da piccolo bastardo durante l’infanzia e l’adolescenza, non l’ha scovato in giro per il mondo, dove l’unica donna che ha avuto veramente a cuore Anguilla è stata Teresa a Genova. Il rapporto di Anguilla con la femminilità, in effetti, è un altro grande tema del romanzo: le due prime donne che gli hanno fatto battere il cuore, Silvia ed Irene della Morra, faranno una brutta fine, mentre alla più giovane delle tre sorelle della Morra, Santina, è riservato il finale, anch’esso particolarmente tragico, come accennato all’inizio. Ultimi due aspetti. Il primo riguarda i nuclei familiari: sono tutti praticamente in crisi, tranne quello di Nuto mai rappresentato in scena. Gli anelli deboli sono i padri di famiglia, incapaci di reggere le sorti (gli esempi abbondano ma basta citare per tutti Valino che si ammazza). Il secondo, invece, è relativo al titolo che richiama alle credenze superstiziose del popolo contadino, alle lune e ai falò per l’appunto, che verranno ribaltate nel loro significato. Non è un caso, tra l’altro, che Pavese parli di questa tematica in un romanzo, considerato che nello stesso arco di tempo stava curando per Einaudi, in veste di direttore editoriale, una collana di antropologia.
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Commenti
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A proposito di figure femminili, mi pare che tutte le donne di questo romanzo facciano una brutta fine.
Sulla mitizzazione della donna, qui basterebbe fermarsi a Santina, mi sembra definita dal volgo "una cagna" per la sua disponibilità sessuale. In ultimo, dopo essere stata uccisa, viene bruciata (con riferimento al "falò") perché "faceva ancora gola a molti" : frase di un'ambiguità sconcertante.
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