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"Mi ci romperò la testa"
“Da questo libro sono nate tutte le antimafie”. Così inizia la prefazione del romanzo, a cura del giornalista e autore Francesco Merlo. Perché “Il giorno della civetta”, scritto nell’estate del 1960 e pubblicato nel 1961, è stato concepito in un periodo storico nel quale il governo non solo si disinteressava al fenomeno della mafia, ma addirittura lo negava esplicitamente. Una cecità destinata a durare poco, considerata la commissione parlamentare d’inchiesta sulla mafia del 1963. A tal proposito Merlo, rimarcando la connotazione innovatrice dell’opera, immagina un emozionante trait d’union tra il capitano Bellodi, protagonista della vicenda, e personaggi come Carlo Alberto dalla Chiesa e Giovanni Falcone, che nei decenni successivi moriranno per mano di Cosa Nostra. “Bellodi dunque non è, come spesso si dice in letteratura, un personaggio realmente esistito, ma è una folla di personaggi che realmente esisteranno, non è ispirato ma ispiratore, è tutti gli eroi antimafia che l’Italia ha conosciuto, come Renzo è tutti i promessi sposi, Ulisse è tutti i vagabondi, Pinocchio è tutti i bambini del mondo”.
Piazza Garibaldi. Sei e mezzo del mattino. Salvatore Colasberna, proprietario insieme a due suoi fratelli di una piccola cooperativa edilizia, viene ucciso mentre sta per salire sul primo autobus per Palermo. L’assassino ha sparato dall’angolo tra la piazza e via Cavour. Scappa nella medesima via, nella quale abita un uomo che puntualmente risulta scomparso. Forse un testimone? Intanto, nel paese, regna un silenzio omertoso. Al venditore di panelle è parso di notare un “sacco di carbone” da cui sono partiti due lampi. Il bigliettaio non ha visto niente. I passeggeri neanche, a causa dei vetri appannati. “Facce di ciechi, senza sguardo”. “Facce dissepolte da un silenzio di secoli”. Il capitano Bellodi indaga. È emiliano, originario di Parma. Si trova in Sicilia da qualche mese e non ha impiegato troppo tempo a farsi conoscere, affermando cose da far rizzare i capelli. “Ha detto che la mafia esiste, che è una potente organizzazione, che controlla tutto”. E infatti pensa che Colasberna sia stato ucciso per aver rifiutato un certo tipo di protezione. Da parte di chi? “Gente che non dorme mai”.
Bellodi, nonostante la brevità del romanzo, conquista un posto rilevante nella letteratura italiana del novecento. È un modello di gentilezza, umanità e perseveranza. L’autore ha modellato il personaggio sulla figura di un suo amico, ovvero il comandante dei carabinieri, ed in seguito generale, Renato Candida. Si erano conosciuti nel 1956. Sciascia lo considerava un fiero rappresentante di un mestiere amaro e difficile. “Il mestiere di servire la legge della Repubblica e di farla rispettare”.
In qualità di antagonista, con funzione di bilanciamento rispetto al capitano Bellodi, l’autore crea il personaggio di Don Mariano Arena, il boss locale. Uomo freddo e spietato, caratteristiche che gli hanno garantito il rispetto a la paura di cui è circondato. È una figura figlia del suo tempo, per certi versi appartenente ad una visione arcaica della mafia. A metà strada tra il criminale disprezzabile e l’”uomo d’onore” che sa riconoscere e rispettare gli sbirri autentici ed i veri uomini. Curiosamente, il personaggio di Arena ha suscitato forti critiche da parte di un amico di Sciascia, Camilleri, che ne rimproverava l’eccessiva centralità nel romanzo ed il rischio che il mafioso fosse nobilitato in virtù di alcune considerazioni che effettivamente simboleggiano alcuni tra i punti più iconici del testo. Come le affermazioni sugli sbirri, sui preti e sui cornuti.
“Non mettetevi in testa che gli sbirri siano tutti stupidi: ce ne sono che, ad uno come te, possono togliere le scarpe dai piedi, e tu cammini scalzo senza accorgertene”. “Non credere che uno è cornuto perché le corna gliele mettono in testa le donne, o si fa prete perché ad un certo punto gli viene la vocazione: ci si nasce. Ed uno non si fa sbirro perché ad un certo punto ha bisogno di buscare qualcosa, o perché legge un bando d’arruolamento: si fa sbirro perché sbirro era nato. Dico per quelli che sono sbirri sul serio: ce n’è, poveretti, che sono paste d’angelo; e questi io non li chiamo sbirri”.
O le sentenze, lucide e spietate, sul popolo, sulla criminalità organizzata e su una certa tipologia di politici. “Siamo al discorso di prima: non ci sono soltanto certi uomini a nascere cornuti, ci sono anche popoli interi; cornuti dall’antichità, una generazione appresso all’altra”. “Noi, caro mio, camminiamo sulle corna degli altri: come se ballassimo”. “È vero che c’è il rischio di mettere il piede in fallo e di restare infilzati: ma anche se mi squarcia dentro, un corno è sempre un corno e chi lo porta in testa è un cornuto”.
Per non parlare della celebre distinzione tra uomini, mezz’uomini, ominicchi, pigliainculo e quaquaraquà.
Ad ogni modo, Sciascia ha certamente inaugurato un nuovo tipo di scrittura impegnata, di letteratura civile, dopo gli anni incentrati sul tema del fascismo e della guerra. Ma è un cambio di registro gentile, rispettoso del passato recente. Una sorta di passaggio di consegne, tanto che Bellodi è un antifascista, un ex partigiano, segnando una continuità emotiva ed ideologica con i vari testi di Calvino, Cassola, Fenoglio, Pavese, Pratolini, Viganò, Vittorini.
Il nativo di Racalmuto, in provincia di Agrigento, è stato un precursore nel cogliere gli interessi criminali della mafia, legata a doppio filo con il potere e la corruzione. In appena 116 pagine, c’è tutto quanto l’autore aveva appreso del “sentire” mafioso: il silenzio omertoso, la distanza tra i cittadini e lo Stato, la complicità tra mafiosi e politici, il controllo malavitoso degli appalti, il metaforico espandersi al nord del paese della “nordafricana palma”, l’utilizzo degli strumenti fiscali per contrastare la criminalità organizzata.
Il tutto condensato da un linguaggio raffinato, ricercato, vibrante, da cui trasuda l’amore per la propria splendida terra e la profonda conoscenza di tutte le sue contraddizioni.
“Il giorno della civetta” è un romanzo audace, intelligente. E tristemente profetico. Uno dei tanti titoli imperdibili del novecento italiano.
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Commenti
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Ti ringrazio, il tuo commento mi incuriosisce e mi spinge a leggere altre opere dell'autore.
Una delle tante grandi figure del novecento italiano.
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Un libro sicuramente di valore ma, soggettivamente, è l'opera di Sciascia che mi è piaciuta di meno.
Letta tempo fa, non l'ho più riletta, non ne sono più curioso.