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Chiamare è riportare alla luce
“La vita va da quando decidono che nome darti a quando quello stesso nome è solo un graffio su una lapide. Nell’uno e nell’altro caso non hai l’iniziativa, quelle lettere sono tutto ciò che hai per venire alla luce e provare a rimanerci. Forse per questo gli antichi dicevano che il destino è nel nome: che ti piaccia o no, sei chiamato a rispondere all’appello.”
Il nuovo lavoro di Alessandro D’Avenia si ambienta tra i banchi di scuola, tra i turbolenti ragazzi di una quinta “classe sgangherata” da portare alla maturità e ha come protagonista un insegnante divenuto cieco all’improvviso da cinque anni. Come dall’incipit, nel nome è scritto il nostro destino, il professore si chiama Omero (“in greco ‘colui che non vede’...) Romeo, dove il cognome è l’anagramma del nome. Un nome straordinario per quello che da necessità diventa un vero e proprio “progetto” straordinario che rivoluziona il modo di fare scuola. Il professore torna dopo una pausa di cinque anni ad insegnare la sua passione : scienze naturali.
La scienza è la disciplina della vita per eccellenza e lui vuole che a scuola venga insegnata la vera vita e che non ci si limiti soltanto a trasmettere un astruso ed asettico sapere in cui i ragazzi di oggi non trovano senso, se non in parte. Per insegnare la vita bisogna partire da loro, dai ragazzi, uno per uno, chiamandoli all’appello, ogni mattina perché
“siamo fatti per nascere, non certo per morire. E un nome ben detto dà alla luce e dà alla luce ogni angolo dell’anima e del corpo (...) Questo è il potere di un nome proprio (...)”.
Ogni giorno si ripete quello che da semplice operazione di registrazione diventa un vero e proprio rituale che i ragazzi accoglieranno prima con un po’ di titubanza mista a curiosità e che poi pretenderanno anche dagli altri insegnanti della loro classe, con tutte le conseguenze che ne deriveranno. Il nuovo insegnante nonostante la cecità dimostra di vedere il loro ‘dentro’ molto meglio degli altri insegnanti che si limitano a vederli solo in superficie, senza neppure guardarli. Omero Romeo per conoscere bene i suoi alunni i primi giorni di scuola chiede loro qualcosa che li lascia un po’ perplessi : toccare i loro volti, conoscere le loro fattezze, la tensione dei muscoli facciali per ‘vedere’ le loro ansie, le loro preoccupazioni, la loro personalità.
Per chi è cieco (ma non solo per chi è cieco, potremmo dire), il tatto
“è il senso più importante. Quando ancora non vedevamo niente, noi toccavamo tutto ed eravamo toccati da tutto. Il destino dell’uomo è nelle sue mani. (...) Le mani danno forma al mondo in cui vorremmo vivere. È con l’uso che facciamo delle nostre mani che facciamo la vita.”
La lezione che il professor Romeo /D’Avenia vuole lasciare in questo libro è quasi rivoluzionaria, dal momento che da anni si propugna la necessità di mettere “l’alunno al centro” dell’insegnamento e di lasciare le incombenze dei programmi ministeriali in secondo piano. L’insegnante non deve “ridurre” la classe, numerosa o meno che sia, ma l’insegnante è chiamato ad “ampliare. Nei campi di lavoro si riducono le vite, a scuola le vite si ampliano: siete in tanti, ma voi ed io, insieme, faremo il possibile per arrivare fino in fondo, costi quel che costi”.
Una visione che fa del mestiere di insegnare una vera e propria missione tra mille difficoltà, anzitutto burocratiche e istituzionali e “il progetto Appello” trova favorevole risposta tra tutti gli alunni della scuola, ma anche una serie di atteggiamenti infusi di sospetto tra gli insegnanti arroccati sulla difensiva, resistenze da parte del Dirigente scolastico che teme di perdere il controllo della situazione. Tutto ciò è normale, spiega il professor Romeo, approfittando dei momenti di vita quotidiana per spiegare concetti scientifici:
“È normale trovare resistenza quando qualcosa mette in crisi un sistema: in fisica occorre vincere l’attrito prima di riuscire a mettere in moto qualcosa, figuratevi se quel qualcosa è la scuola come la si fa da più di un secolo a questa parte...”.
Un esperimento straordinario che per essere fattibile e concreto dovrebbe partire da questa considerazione che tutti gli insegnanti dovrebbero far propria : “ i ragazzi non studiano, perché l’autorità non è più riconosciuta sulla base del ruolo. L’unica autorità che i ragazzi riconoscono è quella di chi sa volere bene, oltre che a conoscere la materia”.
LA MIA OPINIONE. È stato il primo libro di D’Avenia che ho letto. Dopo aver ascoltato molte sue lezioni ed interviste su YouTube ero davvero incuriosita. È un libro che si legge velocemente, per nulla impegnativo, molto pop che arriva ad un vasto pubblico e sono sicura che piacerà a molte persone, soprattutto ai giovani e a chi probabilmente non esercita la professione di docente, in quanto chi insegna oggi in Italia con professionalità e passione è talvolta lasciato solo in un mare di confusione burocratica e obblighi e doveri extra non soltanto non retribuiti, ma anche non riconosciuti. Il mestiere di insegnante non si esaurisce certo in un’aula scolastica, cioè nel suo ‘habitat’ riconosciuto istituzionalmente, ma continua anche a casa e non mi riferisco solo all’immane lavoro che c’è dietro la didattica a distanza di cui sentiamo tanto parlare in questo delicato momento di emergenza sanitaria.
Quanto poi alla questione dell’autorità, la mia visione è più galimbertiana: sono cambiate le famiglie. E delle famiglie e dell’educazione ricevuta nel libro non si parla, in quanto le famiglie degli alunni del professor Romeo sono disastrate, si tratta di casi estremi. Ho trovato inoltre poco credibili la maturazione in così poco tempo -solo un mese- dei ragazzi (drogati, ospiti di case famiglia, ladruncoli, ragazze che hanno abortito...) e soprattutto la cultura che avevano alle spalle: citazioni perfette di Rimbaud, della Woolf, del dottor Zivago, una conoscenza indefettibile della fisica quantistica...non mi ha convinta fino in fondo. Certamente il libro è consolatorio, con happy ending, leggero e con belle riflessioni che tanto piacciono a chi fa “centoni” da copiare e incollare sui social network.
Perfetto da regalare, soprattutto per Natale e vi lascio con questo splendido pensiero che condivido in pieno:
“...non è vero che a Natale sono tutti più buoni. A Natale hanno semplicemente più fretta. Ma la fretta è proporzionale alla difficoltà di amare, perché per amare bisogna prendersi tutto il tempo che ci vuole”.
A tutti gli insegnanti che lottano contro il tempo per far quadrare i conti ministeriali e ad esercitare la loro professione con cuore e umanità.
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Commenti
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La scuola è semplicemente un sistema che non ha niente di sistematico, riflette appieno la schizofrenia e la complessità del reale. Del tutto priva di una seria politica di programmazione, naviga a vista nel mare magnum dell'apparato burocratico perdendo di vista le tranquille coste dell'humanitas da cui tutto ebbe origine. Ora, per stare in metafora, attraversa la peggiore delle burrasche; i naufraghi- lo sappiamo bene- saranno in nostri poveri ragazzi, i nostri figli, i nostri studenti, la nostra generazione futura. Spero solo che riescano a costruire, alla luce di questa esperienza, un mondo nuovo, una scuola nuova. Rivoluzione dal basso, da loro, fossi in loro direi no alla did, pretenderei una scuola vera e seria aldilà della contingenza attuale, insomma Covid o no. Se poi i conti ministeriali non tornano, chi se ne frega!