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Fine pena mai
Antonio Manzini torna in libreria sorprendendoci con una storia che non vede tra i protagonisti il suo personaggio più noto, il vicequestore Rocco Schiavone, da tanti ben conosciuto anche per l’ottima resa scenica che ne ha dato sul piccolo schermo l’attore Marco Giallini.
Schiavone nei romanzi cult di Manzini è un investigatore atipico, potremmo definirlo come un poliziotto sui generis che indaga in romanesco, con acume e ironia, nel mentre cerca disperatamente di restituire un senso alla propria esistenza, sconvolta dall’assassinio dell’adorata moglie Marina, avvenuta in tragiche circostanze per mano di un pregiudicato risentito nei confronti del poliziotto.
Una tragedia personale che restituisce sprazzi di intensa ed insolita tenerezza alle sembianze del poliziotto, di per sé persona intelligente, ricco di umanità, di buon senso pratico, positiva, ma che i fatti della vita, la sua crescita esistenziale nelle difficili e tormentate borgate romane, per quanto talora gravide di incredibili fortissimi legami di fratellanza, amicizia e solidarietà, hanno reso cinico, disincantato, irriverente nella distinzione netta tra bene e male, tra lecito o penalmente perseguibile.
Cambiando l’ordine dei fattori il prodotto non cambia, a mio parere Manzini non è da meno neanche stavolta, anche senza Schiavone ha scritto un bel libro, ci sorprende piacevolmente con un’ ottima storia, attuale e moderna nei temi e nei personaggi, descritti con semplicità e sapienza, resi alla perfezione nella loro essenza, assistiamo attenti ad un raccontare reale e non di fantasia, sintetico, essenziale ma fluido e intenso, forse vigoroso solo a tratti, ma è così che deve essere.
Perché questo è una storia di vite infrante, un racconto disperato e disperante, e la disperazione, quella vera, se pure sorge d’improvviso, evidenzia appieno i suoi nefasti effetti spalmandosi nel tempo, approfondendo le sue spire gradualmente, avvelenando in profondità l’esistenza delle sue vittime; non è vigorosa al suo insorgere, è più subdola e deflagrante solo nel finale. Come questa storia.
Una storia che senza mezzi termini, da subito, dall’inizio, prende il lettore, lo avvince, lo interessa, lo inchioda alle pagine, neanche tante, che si fanno leggere con un misto di piacevolezza ed amarezza insieme. Un romanzo che si legge con piacere, dunque, anche se parla di dolore, di cordoglio, di afflizione, senza però mai scadere nel patetico o nella mestizia fine a sé stessa, e questo risultato lo raggiunge solo chi sa come scriverne. E bene anche. L’autore ha fatto davvero un ottimo lavoro.
Antonio Manzini ci riporta al meglio una storia dissacrante e dissacratoria, un racconto profanante del senso della giustizia, narra del comune buon senso infranto dalle tragedie personali.
Tratta di un assassinio, e di tutte le sue vittime, non tanto colui che è caduto, ma tutti quanti gli sopravvivono, a partire dal reo fino ai familiari dell’ucciso, quasi che un omicidio fosse un corpo pesante gettato a forza, con rabbia cieca ed impulsiva al centro di uno lurido specchio d’acqua, e il turbinoso moto ondoso con le onde concentriche che ne derivano travolgono inesorabilmente te rovinosamente tutti coloro che ne sono in qualche misura coinvolti, colpevoli ed innocenti, carnefici e vittime, un tsunami disastroso e irrimediabile. Per tutti e per chiunque.
Nora e Pasquale sono una comune coppia di mezz’età, gestiscono con buona fortuna una florida attività imprenditoriale a conduzione familiare, sono titolari di una tabaccheria nel centro città.
La loro esistenza si svolge tranquillamente lieta e felice, come quella di tante famiglie, ruota attorno al nucleo fondante della loro vita di coppia, l’unico adorato figliolo Corrado.
Si svolgeva: un triste giorno, per pura fatalità Corrado è da solo in servizio in tabaccheria, un balordo tenta una rapina, e vuoi per il dilettantismo del rapinatore, vuoi per il coincidere degli eventi, la paura e lo stress del dilettante, l’impulsivo reagire del giovane, il fato avverso e la cattiva congiuntura delle stelle e dei pianeti, fatto sta che Corrado muore accoltellato ed il rapinatore arrestato in flagranza.
Una rapina finita male che è non solo una tragedia, ma il prologo della disperazione annunciata.
L’esistenza terrena di Corrado termina, e con essa il suo sorriso e la sua gioia di vivere; e con lui termina anche la vita dei suoi genitori, gli ultimi giorni di quiete, che da quel momento in poi trascineranno le loro esistenze in un susseguirsi di gesti, movimenti, attività stinte, confuse, dissonanti, niente più che tentativi non di dimenticanza, che sarebbe impossibile, ma di annullarsi nell’oscurità e nel silenzio a celare il dolore.
“Portare i fiori sulla tomba di un figlio è contro natura. Piangere sulla tomba di un figlio è contro natura. Vivere al posto di tuo figlio è anche peggio.”
Al dolore si accompagna il rancore, l’astio, il livore per chi ancora respira, quando invece la persona che amavi più di te stesso ha esalato il suo ultimo.
Una reazione assurda e ingiusta ma quasi normale, del tutto logica, difficile a comprendersi se non si è vissuta sulla propria pelle, al rimpianto per l’affetto perduto si accompagna inevitabilmente l’acredine per chi sopravvive, che si reputa sempre immeritevole.
Questo è quanto accade a Nora e Pasquale, e si accentua al massimo grado allorché del tutto casualmente si imbattono nel balordo assassino, Danilo, scarcerato dopo pochi anni di reclusione per sommatoria di benefici di legge.
Una sensazione comune per un evento ricorrente, chiunque sia stato vittima di atti di delinquenza ritiene inadeguata la pena comminata al colpevole, qualunque sia il reato e il danno causato, nemmeno la massima severità, un fine pena mai, placa il personale sentimento di giustizia della parte offesa, figuriamoci per la perdita dell’unico figlio per la cui morte la giustizia ha ritenuto congruo l’estinzione della pena con pochi anni di reclusione.
In Nora e Pasquale scatta allora il meccanismo della rivalsa del borghese piccolo piccolo, un misto di odio, di rabbia, di ricerca della violenza, della vendetta, del sangue e della sofferenza da infliggere personalmente al colpevole, che anni fa fu magistralmente reso sullo schermo da Alberto Sordi in un film di Monicelli, appunto “Un borghese piccolo piccolo” tratto da un bel libro di Vincenzo Cerami.
Solo che la vita non è un film, serve fare i conti con la realtà: Pasquale vuole procurarsi una pistola, per farsi giustizia da solo, non solo per dare un senso ed un significato concreto alla sua scialba esistenza strascicata tra casa, lavoro e manutenzione continua di una vecchia motocicletta, ma anche per interrare una volta per sempre il complesso di colpa che lo tormenta da allora, in quanto avrebbe dovuto trovarsi lui al posto di Corrado quel fatidico giorno, se per una banale casualità non fosse accaduto diversamente.
“Non sono mai stato a favore della pena di morte. Ma della pena sì.”
Ben diverso il piano di Nora, che agisce in maniera più sottile, anche più semplice ed efficace per la sua rivalsa, oserei dire la più logica ed intensamente femminile.
“Una madre non ha più diritto alla vita se suo figlio quel diritto non ce l’ha più…”
Nora sa che quello che l’ha da sempre tormentata non è l’odio che le ha avvelenato l’esistenza, l’odio è solo una conseguenza, un sintomo; ciò che strazia di continuo senza fine è l’ossessione.
L’ossessione di rivedere continuamente la scena, di immaginarla, di creare con la mente alternative e sviluppi diversi, modalità differenti di svolgimento dei fatti, addirittura scenari futuri idilliaci impossibili a crearsi, l’idea fissa che un’immensa ingiustizia è stata commessa, prima da Dio, dal fato o da chi per lui e poi dalla giustizia degli uomini, e questo assillo, questo tormento, questo chiedersi perché Corrado e non altri assai più inutili e immeritevoli del suo figliolo, questa ossessione Nora intende restituire all’assassinio di suo figlio. Pari pari.
Perché si tormenti, accusi il colpo, reagisca, venga punito.
Perciò Nora si trasforma da placida vecchietta in una nemesi che segue Danilo come un’ombra, al lavoro, al bar, al supermercato, a casa, si pone appresso la sua compagna, dovunque vada lo segue, diventa la sua ossessione, perché sa benissimo che questa fa impazzire, basta poco perché questa si trasformi nell’incubo peggiore.
Antonio Manzini ha raccontato una storia di sentimenti, di sensazioni, di emozioni, tutte dolenti, amare, desolanti. Eppure, sono reazioni comunissime, quelle che chiunque proverebbe, davanti a simili tragedie, perchè le sofferenze tratte da tragedie improvvise e inaspettate come solo la vita sa proporre, oltre ogni realtà romanzata, hanno un solo attributo, sono crudeli.
Così crudele è la vita: serve godersi gli ultimi giorni di quiete.