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Vedere la storia con la testa del matto, che poi t
Liborio è un cocciamatte, anzi, un quasi cocciamatte, che quando era in manicomio anche il direttore gli ripeteva che tanto matto non era.
Nasce nel 26 in un paesino dove si vede il mare davanti e la montagna dietro. Il padre non lo conosce, sa dalla madre che è fuggito in America e lui ha gli occhi uguali ai suoi, questa cosa lo seguirà per tutta la vita.
Il primo amore, Giordani Teresa, alla quale strappa un bacio alla fine della guerra.
Poi va a fare il soldato. Da lì nelle prime fabbriche a lavorare e nelle piazze a manifestare contro i padroni. Finisce in manicomio per aver picchiato un supervisore.
Torna al paese ma oramai è tutto cambiato e Liborio, nella sua semplicità, non capisce più nulla. Viene deriso ma anche temuto dalla gente perchè matto.
Arriverà il momento dell’addio e nella sua testa si immagina una festa dove sono tutti invitati, gli amici dell’infanzia, i suoi amori, i degenti del manicomio e i colleghi in fabbrica.
Un racconto che dura una vita, scritto come parlerebbe un cocciamatte, dialetto con parole inventate, ma con le considerazioni profonde del filosofo da strada attraverso le quali conosciamo le asprezze della vita, gli orrori della guerra, la vita in fabbrica nei primi anni dell’industrializzazione italiana, la vita in manicomio.
Conosciamo la solitudine di chi nasce sfortunato, abbandonato già prima di venire al mondo e con una testa che gli altri non capiscono.
Alla fine bisogna mettere i sassi in tasca per non farsi portare via dal vento