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Sicilia: un amore che fa male
“Il giorno della civetta” è probabilmente il libro più conosciuto di Leonardo Sciascia, e devo ammettere che è effettivamente degno della sua fama. Per cominciare, conferma quanto di buono avevo apprezzato nello stile dell’autore: è capace, infatti, di condensare un'enorme quantità di cose in pochissime pagine, lasciando la sensazione d’aver letto un libro molto più lungo in un tempo decisamente più ristretto. Quando, nella nota conclusiva scritta dall’autore stesso, ho letto che “non ha avuto tempo” di rendere questo racconto più corto di quel che è, m'è venuto prima da ridere, poi da pensare: cosa sarebbe stato capace di fare, Sciascia, se quel tempo lo avesse avuto? Un esempio spaventoso della sua bravura in questo senso è proprio nella presentazione del suo protagonista, il capitano Bellodi: un breve paragrafo e il personaggio prende vita, e lo comprendiamo come conoscendolo da anni. Davvero notevole.
Ma passiamo a quelli che sono gli argomenti trattati dal romanzo. Il più ovvio è la mafia, rappresentata in quel periodo storico in cui era un mostro leggendario la cui esistenza era negata persino dal governo, proprio perché alcuni dei suoi più grandi esponenti erano coinvolti nei suoi affari. “La mafia non esiste" era il mantra di quei giorni, ripetuto fino allo sfinimento, eppure i segni dell'esistenza di quell'orrenda realtà non erano neanche troppo celati. Vuoi per paura, vuoi per convenienza, l'evidenza era sempre e comunque negata, anche di fronte alle prove. E proprio di questo parla "Il giorno della civetta", che inizia la sua narrazione con l'omicidio di un imprenditore edile, tale Colasberna, freddato mentre sale sull'autobus per Palermo, di fronte a decine e decine di testimoni che, tuttavia, sembrano non aver visto un bel niente, come se il proiettile fosse sbucato dal nulla. Immediatamente, dunque, veniamo catapultati nel contesto di terrore che è terreno fertile per l'omertà. Il nostro capitano Bellodi, "polentone” tutto d'un pezzo, seguirà la vicenda con l'abnegazione propria di un uomo che mette il dovere e la legge sopra ogni altra cosa, fregandosene dei rischi e di “come vanno certe cose". Non conosce ancora quello che era il contesto siciliano d'allora: tutto e tutti sembrano remargli contro, ma nonostante questo e grazie alla sua bravura e determinazione, sembrerà sbrogliare la matassa del delitto; sembrerà in procinto d'aprire quel vaso di Pandora che nessun altro vorrebbe aprire; sembrerà che la storia si avvii verso una felice conclusione, verso il trionfo della giustizia. Ma Leonardo Sciascia, oltre a dover mantenere fedeltà al suo proposito di denuncia, non è uomo da barattare una realtà scomoda ma vera con una felice ma illusoria.
Un racconto breve ma densissimo, costellato da brani di rara bellezza che inducono alla riflessione. Nonostante gli evidenti problemi che l'autore denuncia e l'amarezza che questi comportano, traspare comunque l'amore di un uomo per la sua terra, come quello d'un padre verso un figlio ribelle che non impara dai suoi errori, e forse non lo farà mai.
“«Io» proseguì poi don Mariano «ho una certa praticità del mondo; e quella che diciamo l’umanità, e ci riempiamo la bocca a dire umanità, bella parola piena di vento, la divido in cinque categorie: gli uomini, i mezz’uomini, gli ominicchi, i (con rispetto parlando) pigliainculo e i quaquaraquà… Pochissimi gli uomini; i mezz’uomini pochi, ché mi contenterei l’umanità si fermasse ai mezz’uomini… E invece no, scende ancora più giù, agli ominicchi: che sono come i bambini che si credono grandi, scimmie che fanno le stesse mosse dei grandi… E ancora più giù: i pigliainculo, che vanno diventando un esercito… E infine i quaquaraquà: che dovrebbero vivere come le anatre nelle pozzanghere, ché la loro vita non ha più senso e più espressione di quella delle anatre… Lei, anche se mi inchioderà su queste carte come un Cristo, lei è un uomo…»”
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