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Candido o della semplicità.
“E peraltro gli piaceva, assomigliarsi a un gatto: per la libertà che sapeva di avere, per il nessun legame con le persone che gli stavano intorno, per la capacità di bastare a se stesso”.
Ecco, condensato in poche parole tratte dai primi capitoli del romanzo, il ritratto di Candido Munafò, nato in un piccolo paese della Sicilia la notte tra il 9 e il 10 luglio 1943, durante lo sbarco degli Americani. Un “piccolo mostro”, a detta invece della mamma del bambino, una giovane donna che, senza porsi troppi scrupoli, dopo pochi anni dalla nascita di Candido riesce ad ottenere l’annullamento del matrimonio dal Tribunale della Sacra Rota e quindi a trasferirsi in America per ricominciare una nuova vita col suo secondo marito.
Dal canto suo, il padre di Candido, l’avvocato Francesco Maria Munafò, subisce le decisioni della moglie facendo buon viso a cattivo gioco e affidando di fatto il piccolo alle cure di Concetta, la governante di casa.
Nemmeno il nonno materno di Candido, un ex generale della milizia fascista divenuto parlamentare della Democrazia Cristiana dopo la fine della guerra, dimostra di avere davvero a cuore le sorti del nipote, preoccupandosi più che altro di amministrare l’ingente patrimonio che questi avrebbe ereditato per parte paterna una volta raggiunta la maggiore età.
Soltanto l’arciprete Lepanto, un curato dalle idee all’avanguardia, con la passione per la psicanalisi e per il pensiero comunista, prenderà a cuore il destino di Candido, seguendo dapprima il ragazzo nel doposcuola pomeridiano e poi, col passare degli anni, diventando per lui un vero e proprio compagno di vita.
Tanto che, quando don Antonio, l’arciprete, decide di abbandonare l’abito talare e di tornare a vivere da laico, i due si ritroveranno a compiere insieme le stesse scelte, dal coltivare la terra in campagna al prendere la tessera del partito comunista.
In entrambi, prevale su tutto il bisogno di una vita autentica, sincera, pura, leale; slegata, insomma, dagli stereotipi e dalle ipocrisie in cui la società, spesso, ci rinchiude in maniera subdola, propinandoci degli ideali di libertà che finiscono per degenerare in vere e proprie forme di schiavitù (anche solo psicologica).
Si tratta, quindi, di curare la propria forma mentis – anche attraverso lo studio della filosofia, della letteratura, della storia del pensiero politico tante volte evocate nel corso del romanzo – in modo da non smarrire mai uno sguardo “candido” sulla realtà e sugli uomini. Non concepire il male (“omnia munda mundis”, avrebbe detto il grande Manzoni!) non perché non esista ma semplicemente perché non esiste dentro di noi (come quando il protagonista dimostra di non curarsi dell’interdizione che i suoi parenti hanno chiesto per lui, felice di rinunciare a dei beni che per lui erano diventati un peso).
E viaggiare, viaggiare tanto prima di stabilirsi nel posto non “in cui” ma “per cui” si è nati.
Perché solo dopo aver cercato troveremo noi stessi: troppo banale?
Beh, “a vederle, le cose si semplificano; e noi abbiamo invece bisogno di complicarle, di farne complicate analisi, di trovarne complicate cause, analisi, giustificazioni. Ed ecco che a vederle non ne hanno più; e a soffrirle, ancora di meno”. Parola di Candido Munafò.
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