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"Si può essere troppo vivi per vivere?"
Non so se sia possibile instaurare una relazione empatica con i libri tuttavia,credo che a me con tale romanzo sia accaduto qualcosa di affine.La prima volta che mi sono imbattuta in esso,in tutta franchezza,ho cercato di eluderlo a motivo della trama,a mio avviso troppo impegnativa sotto il profilo emotivo;pur non di meno,ai miei occhi pavidi eppure affascinati,non ne è sfuggito il titolo:”Tutto chiede salvezza”.( salvezza che in tal caso recupera il duplice significato di "Salvezza" ma anche di Salute", in
ottemperanza al vocabolo latino "salus")Pensai che tali parole non ammettessero replica,alcuna ma,al contrario si stagliassero perentorie,icastiche conturbanti,forti di un’autorevolezza propria soltanto alle parole che sanno di Vero, sicché mi balenò il fatidico pensiero che per tutto quel tempo avevo rigettato nella sfera dell’inconscio:Chi non chiede salvezza?Possibile che,in un angolo del mio essere,così recondito da sembrare inesistente,possa anch’io chiedere salvezza?Il romanzo prende avvio con una tormentosa giaculatoria, un mantra salvifico con valore quasi apotropaico configuratasi per lo più come un lento stillicidio,una querula ed inascoltata preghiera collettiva,quasi un rivolgersi dell’ uomo alla sua stessa natura in cerca di pace:O Maria ho perso l’anima,aiutami Madonna mia!Tali parole scandendo il ritmo del romanzo,sopraggiungono con l’ineluttabilità di una condanna incombente.Il protagonista ed io narrante è Daniele Mencarelli,un ventenne ultrasensibile e sin troppo empatico con il mondo circostante e con le sofferenze altrui,nelle quali si compenetra tanto da viverle come proprie.Egli è uno spirito inquieto, costantemente in preda a ciò che Antonia Pozzi definirebbe saggiamente "febbre del sentire",ansimante fra un’irresistibile vocazione alla vita e,l’immanente incapacità di tollerare il peso della stessa, come scrive Lee Masters:E’una barca che anela al mare eppure lo teme.Ma si può essere troppo vivi per vivere? Si può amarla ed odiarla nel contempo? V' è una frustrazione maggiore del vedere la propria naturale inclinazione alla Grandezza, alla Meraviglia alla Bellezza appiattirsi dinanzi a convenzioni, autoinganni e mediocrità?Leggendo tali righe,viene da domandarsi se, un giovane uomo,riluttante ai canoni di produttività dell’utilitaristica società moderna,possa ritenersi colpevole di una precocee disillusa consapevolezza,ci si domanda se sia vero quanto scritto da Proust:Larga parte dei problemi delle persone intelligenti derivano proprio dalla loro intelligenza?Può definirsi colpa obbedire al richiamo del proprio müssen? Riaffiorano alla mente le parole
del Dottor Faust Goethiano "“Non v’è nulla di più triste a vedersi della tensione spontanea all’ incondizionato in un mondo che è tutto contingente”.Daniele avverte un senso di incompiutezza,rintracciabile forse,nel ricordo di quel Prima,del Paradiso,di Dio,una nostalgia(termine significante proprio dolore per il ritorno)affine al concetto di anamnesi platonica e cagionata dalla consapevolezza di una dicotomia,quasi romantica,fra tensione all'assoluto e meschinità della vita concreta. Ritengo che il disagio esistenziale vissuto dal protagonista sia non solo legittimo ma anche necessario, ineluttabile, un uomo bramoso di vita come può non indignarsi dinanzi alla caducità talora crudele dell' esistere?Come si può rassegnare alla tirannia del tempo incessantemente esercitata a dispetto di ciò che per lui dovrebbe durare per sempre? Comprendo il diffusissimo ricorso al quieto vivere, talvolta inevitabile ma penso che sia possibile, audace e bellissimo che qualcuno non ce la faccia , vi si opponga strenuamente; giacché, come scrive ancora il caro Lee Masters "Cercare un senso alla vita può condurre alla follia, ma una vita senza senso questa è la vera tortura"Tale contraddizione è resa mediante la saggia alternanza di vernacolo romano con intermezzi riflessivi,quasi lirici,i che ne fanno un innovativo prosimetro nel quale le parole ermetiche valicano i confini del non detto,anche grazie alla provvida presenza di spazi bianchi.D’altronde che risposta c’è al dolore?Tutto ciò dà vita ad un romanzo che non dà tregua, ma che al contrario,si configura come un’aporia,nella quale l’unica possibilità è accettare la natura ambivalente di una vita dominata dal caso,le contraddizioni insite nella polarità della giustizia,in un dipanarsi di eventi ove,mai come in tal caso la fortuna è una vox media.Spero tanto che vinca il Premio Strega, sarebbe una piccola grande rioluzione, un peana alla Bellezza della Verità, alla potenza delll' esperienza concreta, carnale, all' audacia di chi narra l'indicibile trasfigurandolo in poesia.Sebbene abbia deciso di recensire questo libro, tengo a precisare come questa scelta sia dettata essenzialmente dalla necessità di estrinsecare e condividere, molto volentieri anche in chiave problematica le riflessioni suscitatemi; detto ciò le parole sono del tutto insufficienti a decodificare il fluido informe della vita, tanto più se essa si rileva in una veste lirica.Io "Io temo tanto la parola degli uomini.
Dicono sempre tutto così chiaro:
questo si chiama cane e quello casa,
e qui è l’inizio e là è la fine!
E mi spaura il modo, lo schernire per gioco,
che sappian tutto ciò che fu e che sarà;
non c’è montagna che li meravigli;
le loro terre e giardini confinano con Dio!
Vorrei ammonirli, fermarli; state lontani!
A Me piace sentire le cose cantare!
Voi le toccate diventano rigide e mute!
Voi mi uccidete le cose!
R.M. Rilke
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