Dettagli Recensione
Marocco
«Che alle volte, individuata la cosa giusta da fare, poi, a farla sembrava strana e che spesso era proprio la cosa giusta da fare a essere strana»
Marco, detto Marocco, per quella pelle scura e quei capelli ribelli, vive con il padre a Soccavo, un quartiere di Napoli, ha quattordici anni e non ha mai superato l’abbandono della madre ormai scomparsa dalla sua vita, e da quella del genitore, da cinque anni. Iscritto al primo anno di liceo scientifico, perché quello i professori hanno consigliato e quindi quello deve essere fatto, il ragazzo vive nell’inerzia del tempo che scorre e delle decisioni che non prende. Non si impegna a scuola, sa che verrà bocciato e addirittura, si fa trasportare in un giro non propriamente lecito di spaccio, dal compagno di avventure e disavventure, Lunno. Le sue giornate scorrono rapide e sono dettate da un ritmo scandito da una routine ben impostata in cui si alternano pesci, partite a calcio nella squadra di calcio “Giovanissimi”, taglio di stecche, sigarette consumate una dietro l’altra, cannoni, fumetti quali Dylan Dog e primi amori. Dietro alla cornice un sentimento prevalente: il dolore.
Perché Marocco non ha mai superato la perdita e l’abbandono. Vive la mancanza della madre come un vuoto incolmabile e respira dei silenzi del padre che dal suo canto cerca di aiutarlo, di offrirgli una strada da seguire, di trasmettergli dei valori. Ma Marco non lo ascolta e nemmeno davvero gli parla. È nella tipica età in cui ci si sente incompresi, in cui si è arrabbiati con il mondo, in cui tutto quel che ci circonda ci è ostile in particolar modo se questo qualcosa ci richiede un impegno anche minimo. Il loro rapporto è fatto di poche parole e tanti silenzi. Trattiene dentro le emozioni dettate da questa mancanza, non le esterna con nessuno se non nei sogni.
«Pensai che ci fosse una prima volta per tutto. Non gli dissi che la mattina mi svegliavo stanco. Non gli dissi che passavo le notti allenandomi a non soffrire.»
Si sfoga giocando a pallone ma, badate bene, a differenza di “Napoli mon amour” in cui il protagonista dell’opera de qua fa una comparsa (i due romanzi possono leggersi separatamente e indipendentemente), qui il calcio non è il protagonista, non ha un ruolo principale, fa al contrario da contrappeso alle vicende che si susseguono. Tuttavia, Marco non decide. Marco non sceglie. Marco non prende mai una vera posizione. Si arriva ad una conclusione senza una sua vera e propria presa di coscienza, senza una sua vera e propria volontà. Non solo. Per tutta la prima parte l’opera si delinea nei suoi caratteri e connotati ma non decolla mai davvero tanto che il lettore arriva a chiedersi dove effettivamente il ragazzo voglia andare. Nella seconda implicitamente si aspetta un mutamento, un cambiamento di registro che non avviene nell’esteriore quanto nell’interiore perché l’adolescente decide di aprirsi all’amore, decide di aprirsi in un certo senso al futuro. Si vede, forse per la prima volta. Non aspettatevi dunque una trama dai grandi colpi di scena perché la storia è semplice, tipicamente in stile napoletano anche nella tecnica narrativa, non ha pretese e non ha aspettative nel suo essere accorta nel suo modus costruendi, e punta sull’aspetto introspettivo. Può arrivare, può non arrivare. Questo perché il protagonista nel suo ribellionismo continuo, nel suo atteggiamento di lasciar correre gli eventi come una cascata, nel suo ribollire dentro per tacere fuori, o si ama o si odia.
In ogni caso, il libro smuove. Arriva per il dolore che trasmette, arriva come una lama che taglia, arriva per quell’epilogo non epilogo che si gioca sul dare e avere della vita stessa, sul quel che la vita ti offre e la vita ti toglie, su quel dato per cui la vita ti ripaga ma la vita anche ti punisce, ma tuttavia aperto a chissà quale avvenire.
«Sono passati decenni, i miei denti sono marciti e mio padre cammina un po’ più curvo ed io ancora aspetto, eppure niente più succederà perché tutto è già successo. Perché non siamo altro che cose che rotolano giù per una discesa e che prima o poi si fermeranno.
Perché siamo vivi finché ci muoviamo.
Perché siamo vivi finché andiamo giù. Ci dissanguiamo costantemente e che tutto sanguini, per favore, per sempre, allora, perché il sangue è quello che c’è prima che la vita cominci.
La vita.
La vita non è altro che un’inconsapevole attesa. Poi arriva, e fa male.»
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