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Ella.
«Se guardo avanti vedo l’orizzonte alla mia altezza, è solo molto lontano. Ho imparato anche a non avere paura di guardare avanti, di pensare al futuro. […] Negli anni in cui non ero capace di alzare lo sguardo e cercarlo, lui mi teneva sempre sott’occhio. È il mio orizzonte, che altro deve fare se non starmi attaccato. Come la mia direzione, lei sa dove sono io, sono io che non la riconosco e il giorno in cui riuscirò a prenderla ci incontreremo e mi dirà Finalmente. Forse. Quindi, oggi, se durante questo tragitto mi dovesse capitare di trovare la chiave allora saprei dove andare se forse scomparirebbero anche il lago e il bosco, chissà se forse anche di loro non rimarrebbe soltanto una cicatrice, un tatuaggio e con una toppa addosso a memoria di un percorso compiuto comincerei la Vita Nuova. Perché non è vero che non siamo stati felici e in ossequio al passato riconoscerei anche a quella toppa una mano di crema ogni mattina, toccandomi con queste dita lunghe e ossute, così simili alle tue.»
Non è vero che non siamo stati felici, mamma. Non è vero che non abbiamo abitato il nostro reciproco cuore. Non è vero che quella carta che è stata sfilata dal mazzo ha significato una fine definitiva. Non è vero che il lutto si supera così, dall’oggi al domani. Non è vero che andare avanti è facile. Non è vero che restare lo sia altrettanto. Non è vero che chi resta dimentica. Chi resta sanguina. Chi resta deve fare i conti con quel vuoto, con quella struggente malinconia, con quella perenne nostalgia. Deve trovare le proprie scarpe per camminare in quel mondo così uguale allo ieri, eppure così diverso. Per insegnare, per trasmettere, per dedicare una luce a quei figli affinché possano vederlo quale un bel posto. E allora parti. Parti per l’Europa, scrivi le tue lettere perché non hai altro modo per parlare con lei, monti la tua tenda. Ti sposti tra la Versilia degli anni Ottanta e Novanta, tra Cracovia e Berlino. E cerchi. Cerchi di vincere la sua assenza per colmarla con nuova essenza. E proprio per questo fuggi. Fuggi perché è più facile, fuggi perché devi recidere quel cordone ombelicale. Tuttavia, il dolore resta. Smetti di pronunciare alcune parole, temi di ricordare. Poi arrivano loro, i tuoi figli. Arrivano i libri. Arriva lo studio. Arriva la scrittura. E il dolore che ancora c’è perché il dolore non se ne va mai, smette di fare paura. Adesso puoi affrontarlo. Adesso puoi reimparare a respirare. Adesso puoi provare a stare in equilibrio. Un nuovo equilibrio. Trovi la tua chiave. Quella che apre tutte le serrature e che al contempo ha il potere di chiuderle.
E scrivi, butti giù, esterni. In un flusso di coscienza poetico e pieno di metafore, con uno stile disincantato che è intriso di rabbia, di dolore, di impotenza, ma che è anche ironico e che sa ricucire il ricordo e tenerlo vivo. Uno stile che si evolve, muta, che è impregnato di emozione allo stato puro e che per questo può non essere semplice da leggere perché da quell’emozione sei completamente travolto. Ed è giusto che sia così. Ed è giusto che ella viva.
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