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Uno spaventoso intrico di terrore
"E mentre io come essere pensante e ragionevole mi lascio trascinare da alcune migliaia di millenni di cattive abitudini e faccio di tutto per costruirmi un’immagine melata e falsa del padre mio il mio inconscio sa benissimo che questo padre era un cane maledetto che tutti i giorni mi rubava la madre mentre io ero nel pieno della mia situazione edipica ossia per la madre morivo d’amore, onnipotente cane contro il quale io piccolo non avevo difesa all’infuori dell’odio, un odio smisurato come quello dei bambini che non hanno limiti nel voler bene e nel voler male sicché questo mio padre io l’ho ammazzato infinite volte con la mia volontà e il mio desiderio e in altre parole io nel mio inconscio sono infinite volte parricida, e può anche darsi che sia vero". Un po' Svevo, un po' Gadda, molto autobiografico, Giuseppe Berto presenta un lungo monologo interiore in cui il protagonista, palese alter ego dell'autore, racconta il male oscuro che lo tormenta dalla nascita e che trova angoscioso e definitivo sfogo in seguito alla morte del padre, figura a dir poco ingombrante nella vita del nostro eroe. I pensieri, i ricordi, le ipotesi, i dubbi, le certezze diventano un fiume impetuoso che scorre tra pagine prive di punteggiatura travolgendo il lettore e trascinandolo, attraverso vortici, rapide, cascate, verso gli abissi più profondi in cui l'animo umano, sopraffatto da un male di vivere che non risparmia nessuno, può ritrovarsi risucchiato. Attenzione però a non pensare di essere davanti un pesante mattone psicoanalitico. Berto è straordinario nell'affrontare un argomento spesso difficile e spinoso con una consistente quanto inaspettata dose di ironia, dimostrando una sensibilità che non sfocia mai in autocommiserazione, una lucidità che non arriva mai al cinismo. Analista e analizzato al tempo stesso, il protagonista riesce a staccarsi dal suo corpo e dalla sua mente tormentata e a raccontare il suo calvario come se lo vedesse da fuori. La prosa forbita, elaborata, a tratti tortuosa, richiede una buona dose di attenzione ma nel complesso non stanca mai, nonostante i lunghissimi e vorticosi periodi, escamotage singolare ma perfetto per rappresentare al meglio il tumultuoso flusso di pensieri della voce narrante. Altra singolarità dell'opera è l'assenza di nomi, a partire dallo stesso narratore continuando con "la vedova francese", "la ragazzetta" poi divenuta "la moglie", "il padre", "la sorella maggiore" e così via, con l'unica eccezione della figlia Augusta, specchio del rapporto figli-genitori che tanto lo ha tormentato. Tradito in tenera età da un padre che gli ruba sempre la madre e da una madre che lo abbandona troppo spesso per andare dietro al padre, soffocato dall'ipocrita perbenismo di stampo religioso imperante negli anni della sua adolescenza, deluso dalle disattese promesse di gloria del regime fascista, oppresso dal senso di responsabilità verso una famiglia che non risparmia i sacrifici per farlo studiare senza mai dimostrargli la minima fiducia, il protagonista decide di allontanarsi da tutto ciò abbandonando la provincia veneta per trasferirsi a Roma. Dopo aver mantenuto per anni freddi rapporti con la famiglia, nei confronti della quale non ha mai risparmiato aiuti economici, ritorna nel paese natale a causa delle precarie condizioni di salute del padre. Tuttavia, spaventato dal cancro che rode il genitore, disgustato dal cattivo odore che questi emana, rassicurato dalle speranzose spiegazioni dei medici, decide di rientrare nella capitale poco prima che la morte porti via con sé il malato. Il senso di colpa assalirà così il nostro uomo, riportando alla luce vecchi traumi e generando nuove paure, mettendolo davanti ad un impietoso faccia a faccia con se stesso, ad un magro bilancio della sua esistenza, ad una nevrosi in cui fobie, attacchi di panico, ipocondrie diventano pane quotidiano. Sarà "il vecchietto", analista minuto e meridionale, a dargli l'aiuto necessario ad uscire da questa impasse, guidandolo per mano attraverso un lungo percorso interiore attraverso il quale, a piccoli passi, si arriverà a quello che dovrebbe essere un completo e definitivo ristabilimento. Ma può mai esserci una vera guarigione al male di vivere quando si è costretti ad avere a che fare con un mondo cattivo, subdolo, infido? "Ecco ciò che sono non esiste mia moglie, non esiste donna e neppure figlia se si eccettua un residuo di volontà che non ci sia, oh mai fosse nata mai, e questa donna qui piange e mi implora e dice dimmi cosa posso fare dimmi, e io voglio andare in manicomio dico portami in manicomio da qualcuno, e lei piange ancora di più e dice questo no se vai in manicomio non ti vedo più guardami almeno, e io la guardo con un certo sforzo ma anche sopra di lei vedo il mio cervello matto e penso cosa ci vuole perché uno muoia cosa ci vuole, dimmelo tu padre mio vedi come sono in agonia con sudore di sangue e tremore di morte e non ancora morte liberazione, oh non resisto più voglio diventare matto proprio matto se ho mia moglie qui inginocchiata davanti a me che piange e mi scongiura, ed ecco che comincio grazie a Dio a sentire un po’ di pietà per lei, e anche per me si capisce, ecco che è finita la speranza finito il lavoro, mi ucciderò lascia che mi uccida ma non dire niente alla bambina, giurami che non verrà mai a saperlo le dirai che sono morto ma non morto così, ed ora mi viene da piangere infine, comincia a sciogliersi in lacrime questo spaventoso intrico di terrore".
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