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Ritorno a casa
Pubblicato nel 2016 da Elliot Edizioni, “Dieci prugne ai fascisti” è un romanzo nel quale la scrittrice italo-bosniaca Elvira Mujcic racconta una storia che commuove e diverte allo stesso tempo, nonché ricca di memorie familiari.
Ci si ritrova, infatti, a seguire le vicende della famiglia di Lania, in Italia dagli anni del disastroso conflitto nei Balcani. Quando Nana, la nonna, viene a mancare, si attiva la macchina organizzativa che era stata già prevista tempo addietro per riportare in Bosnia l’anziana donna, che aveva infatti sempre espresso il desiderio di essere sepolta nella propria terra d’origine. Sopravvissuta al dolore per la morte, a causa della guerra, di due figli rimasti privi di sepoltura, è lei, la nonna, nonostante la trama del libro ruoti attorno all’organizzazione del suo funerale, il personaggio più vivo e vivace di tutta la narrazione, vera figura carismatica e colonna portante di una famiglia in cui, come in tutte le altre, si accendono battibecchi e discussioni; il suo strenuo attaccamento alla terra evoca una circolarità dolorosa, ma forse necessaria: “essere sul luogo dove tutto ebbe inizio, accogliendone la fine” diviene essenziale affinché la vita abbia un senso, non sempre comprensibile pienamente da chi è giovane.
“[…] Non sapevo cosa pensare: era meglio andare, correre, non tornare mai indietro, attendere la fine lontano da dove si è venuti alla luce? Oppure faceva bene chiudere il cerchio, ritornando? […]”
Rispettando però l’ultima volontà di Nana, la figlia e i nipoti riescono a organizzare per lei l’estremo viaggio che diventerà, per tutti loro, occasione per un ritorno in patria alquanto movimentato. Riuscirà il feretro, infine, a giungere a destinazione?
Attraverso un io narrante particolarmente spontaneo e coinvolgente, la Mujcic (che avevo già avuto modo di apprezzare nel più recente “Consigli per essere un buon immigrato”, Elliot Edizioni, 2019) ci dona una storia davvero bella, dove realtà e finzione letteraria s’intrecciano com’è giusto che sia, inquadrando temi che, alla luce della stessa vicenda familiare della scrittrice, vanno da quello delle radici a quelli della multiculturalità e dell’immigrazione in un Paese straniero sentito come proprio. Il tutto sostenuto da un’altrettanto bella scrittura, mai piatta né banale, sempre pronta a cogliere, nonostante tutto, quella sottile ironia che la vita ci offre nelle più svariate circostanze. Un romanzo in cui i fascisti (o presunti tali) richiamati dal titolo non sono altro che ragazzotti canterini da nutrire, capitati chissà come tanto tempo fa nel più sperduto villaggio bosniaco, dai quali magari imparare a contare fino a dieci in lingua italiana; un romanzo dove la felicità può consistere nello sventolare all’improvviso la bandiera di uno Stato ormai inesistente o esplodere, incredibilmente, persino alla vista di un carro funebre. Una lettura che consiglio vivamente!