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Storia della bambina perduta
 
Storia della bambina perduta 2020-03-14 18:26:58 Cathy
Voto medio 
 
3.0
Stile 
 
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Contenuto 
 
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Piacevolezza 
 
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Cathy Opinione inserita da Cathy    14 Marzo, 2020
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Tra luci e ombre

«A differenza che nei racconti, la vita vera, quando è passata, si sporge non sulla chiarezza, ma sull’oscurità».
"Storia della bambina perduta", come l’intera quadrilogia dell’Amica geniale, oscilla costantemente tra luci e ombre, tra momenti in cui sembra di cogliere un barlume di quella grandezza tanto celebrata da critici e lettori e momenti in cui proprio non si riesce più a vederla. I difetti che affliggono questo romanzo conclusivo sono gli stessi già incontrati nella lettura dei volumi precedenti: la noia delle molte pagine superflue, il “riempitivo” che si trascina (ne sono un esempio perfetto le pagine dedicate alla storia di Napoli, strano sfoggio di aneddoti storico-artistici che appare del tutto slegato dal contesto della narrazione e dunque superfluo), l’ambiguità alienante del rapporto tra Elena e Lila che, giunte ormai alla piena maturità, continuano a ripetere gli errori di sempre, vicende a metà strada tra una telenovela e una fiction per casalinghe, intrecci infiniti di matrimoni, mariti, figli, amanti, con qualche accenno un po’ superficiale alla Storia, senza dubbio non abbastanza per affermare che la saga della Ferrante racconta cinquant’anni di vicende storiche italiane, come si legge spesso. La detestabilità del personaggio di Elena non viene meno e tocca il culmine in due momenti precisi, il primo quando cade nuovamente nella trappola di Nino Sarratore, come se avesse ancora sedici anni e non fosse (almeno in teoria) una donna adulta e matura, e il secondo alla fine, quando calpesta la promessa fatta a Lila di non scrivere mai nulla di lei e mostra la più totale mancanza di rispetto per la tragedia della sua amica solo per pubblicare un altro libro. Fa quasi rabbia che alla fine l’unica a uscirne quasi indenne, con una bella vita, un bel lavoro, una bella casa, tre figlie, sia proprio lei, che ha mostrato al lettore i suoi lati peggiori per quattro libri e infine esce di scena commettendo un tradimento così grave.
Eppure, ancora più dei comportamenti superficiali ed egoisti di Elena, a infastidire in questo romanzo sono le numerose zone d’ombra, tutto il non detto, il non visto, il lasciato in sospeso, dalla scomparsa della “bambina perduta”, un evento che resta lì come un filo che si smarrisce nel buio, all’enigmatica ricomparsa finale delle bambole, suscettibile, come la sparizione della bambina, di mille possibili interpretazioni diverse che lasciano il lettore deluso e frustrato. L’eccesso di chiarezza non è necessariamente un bene, perché lasciare qualcosa alla sola fantasia di chi legge può avere un potere suggestivo notevole, ma anche l’eccesso di buio è negativo.
Rispetto ai due romanzi precedenti, "Storia della bambina perduta" sembra soffrire un po’ meno di questi difetti e soprattutto paga meno lo scotto della necessità di allungare il brodo per riempire ben quattro volumi: se l’inizio e la fine dei romanzi della Ferrante sono sempre la parte migliore, perché si va dritto al sodo, mentre nel mezzo si dà ampio spazio al riempitivo, lo stesso discorso vale per la parte iniziale e la parte finale dell’intera saga. A confronto con "L’amica geniale", però, l’ultimo romanzo non ha il fascino del primo, il solo che, tra tutti e quattro i libri, meriti una lode piena.
Nel complesso, la saga dell’Amica geniale sembra avere più ombre che luci, un po’ come la vita stessa, ed è per questo che in fondo il giudizio non può essere così negativo. Se la vita umana è una giostra di follie, insensatezze, incomprensioni, rimpianti, errori e illusioni, allora questi quattro romanzi la rappresentano molto bene. Scrive ancora Elena Ferrante, parlando attraverso Lila, che «solo nei romanzi brutti la gente pensa sempre la cosa giusta, dice sempre la cosa giusta, ogni effetto ha la sua causa, ci sono quelli simpatici e quelli antipatici, quelli buoni e quelli cattivi, tutto alla fine ti consola». Una riflessione indubbiamente autoreferenziale, eppure innegabile. I “romanzi brutti”, quelli che raccontano un mondo ideale, dove le distinzioni sono nette, tutto è chiaro e definito e il bene trionfa non possono rappresentare la realtà dell’esistenza umana, con le sue scosse, le fermate improvvise, gli scontri, i passi indietro. La saga dell’Amica geniale la rappresenta, è vero, anche fin troppo bene, senza indorare la pillola in alcun modo e lasciando a stento una fievole traccia di speranza. Ma rappresentare la vita per ciò che è, invece, è sufficiente a scrivere “un romanzo bello”? Purtroppo no, e neppure lodarsi da soli.

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