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L'amore che trema
Il Tondelli che nel 1989 pubblica “Camere separate” è molto distante dal giovane autore di “Altri libertini”, libro scandalo pubblicato pochi anni prima, tanto crudo e violento nella immagini, quanto immaginifico e affascinante nel linguaggio. Al di là di una certa continuità tematica, infatti, “Camere separate” approda a una scrittura più placida e misurata, ricca ma mai soverchiante, graziata com’è da un candore delicatissimo, da un rispetto quasi sacro per il dolore e per la solitudine. Sulla scia del bel libro di Isherwood, “Un uomo solo”, Tondelli supera il modello costruendo una storia difficile e commovente, una storia che trema in ogni suo palpito, in ogni sua pagina, perché la mano non può essere ferma quando si descrive la grazia di un amore che nasce, il dolore di una vita che finisce. Leo e Thomas, scrittore l’uno, musicista l’altro, stregati da uno sguardo in una sera qualunque a Parigi, i corpi slanciati, tonici, gli occhi di brace su un una stanza che è quasi solo un letto, su un amore che è quasi tutta una vita. Eppure Thomas è morto, lo scopriamo subito, stroncato troppo giovane da una malattia che gli ha gonfiato le viscere, che lo ha spento poco a poco. E Leo che è sopravvissuto, che lo ha potuto vedere solo un’ultima volta implorando i genitori di Thomas, porta su di sé il peso di essere ancora vivo, la colpa di poter ancora ridere, godere, piangere. È un’accettazione dolorosa che dall’apatia passa all’edonismo, che dal torpore passa all’ubriachezza, perché la morte di Thomas non è solo la fine di un mondo, ma forse la fine della possibilità d’amare.
Accartocciata su se stesso, la storia di “Camere separate” modula un tempo liquido, che fluttua dal passato al presente senza soluzione di continuo, che fa sospirare e atterrisce, capace nella sua sconcertante e crudele normalità di conficcare il lettore alla croce della propria impotenza, se la vita è vita, capace anche di distruggere la bellezza. Eppure “Camere separate” non è primariamente un libro sulla fine dell’amore, piuttosto è un libro sulla solitudine, sullo spazio della propria indipendenza, sull’altare della propria libertà. Per questo Leo vuole vivere ancora distanti, separati appunto, per separare dal cuore anche la possibilità di precipitare per sempre nella vita e nell’amore, perché l’amore puro e assoluto può anche essere una caduta rovinosa. E dunque elaborare la morte di Thomas non è solo elaborare un lutto, ma la ricerca di un perdono per se stesso, un’occasione per scoprire quello che in Leo è più profondo di Leo e forse per uscire dal proprio narcisistico egoismo, dal proprio riflesso.
Ho amato molto questo libro, perché ho riconosciuto in certi punti la mia scrittura, il mio modo di sentire e intendere il mondo, perché Tondelli ha scelto la strada dell’attenzione e della delicatezza, quella che sfuma invece di ferire, come si può notare nelle bellissime scene d’amore che brillano di una luce soffusa. Non è un libro perfetto, a volte divaga, a volte perde il centro dell’attenzione (ritorna la droga, alla politica, ma non ce ne è bisogno), si potrebbe rivedere l’intreccio, anticipare quello che viene detto in fondo e dire in fondo quello che viene detto all’inizio, eppure, nonostante questo, un libro che sa toccare là dove fa più male, nella consapevolezza cioè che a volte ognuno di noi vive in camere separate, sullo stesso letto, certo, ma fissi nel nostro riflesso, come lo sguardo di Leo che nella primissima scena si contempla perduto nell’oblò di un aereo. Perché a camere separate, non si può toccare la vita.
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Mi ha colpito la coincidenza di questo “camere separate”, in questo brano appena letto in “Mio fratello” di Pennac. Il contesto è molto diverso, è vero, ma la solitudine, in fondo, è sempre la stessa.
Ciao, Manu
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