Dettagli Recensione
Gabriele e Ciro
«Come tutte le mostruosità, Napoli non aveva alcun effetto su persone scarsamente umane, e i suoi smisurati incanti non potevano lasciare traccia su un cuore freddo.»
Il suo nome è Gabriele Santoro, di professione è professore di pianoforte al conservatorio San Pietro a Majella di Napoli, ha circa cinquantacinque anni e sua abitudine è quella di radersi declamando una poesia generalmente del suo poeta preferito; Kostantinos Kavafis. La sua vita è fatta da silenzi interrotti dalla musica e da una solitudine all’interno della quale le giornate volano rapide. La sua è una routine indissolubile, impenetrabile. O almeno così pensa fino a che in un pomeriggio come tanti, come un inganno partorito dalla stanchezza, ecco che un bambino con indosso vestiti ordinari, di carnagione chiara, capelli neri e corti, occhi azzurri, intensi, che lo fissano in una compostezza che si sarebbe detta adulta, anche se l’aspetto non autorizzava a supporre che avesse più di dieci anni, si palesa nella sua esistenza impadronendosene. Ha bisogno d’aiuto, Ciro. Figlio di camorristi ha commesso, insieme al suo amico Rosario, uno sgarro imperdonabile e adesso lo stanno cercando per vendicarsi del torto subito. Ha bisogno di ospitalità, di protezione. Il maestro non riesce a resistere a quello sguardo supplichevole, a quella febbre che sale, a quel panico che attanaglia e fa tremare il corpo. Sa che nascondendolo va incontro a gravissime conseguenze, ma che fare? Come abbandonare un bambino a un destino dettato da un’eduzione al crimine che è l’unica che conosce?
«Per gli uomini che avevano scavato quella galleria, tra la vita e la morte c’era una enorme terra di nessuno dove sostare senza preoccuparsi del tempo in cui vi sarebbero rimasti. L’errore fatale, il peccato di chi era venuto dopo, era nell’arrogante volontà di concepire in modo netto un prima e un dopo. Tutti i guai venivano da lì. Probabilmente, lui si trovava da tempo in questa terra di nessuno, e non lo sapeva. La verità la dicono solo i morti, anche se non ricordava chi l’avesse scritto, questo assunto gli sembrava sempre più vero.»
Da questi brevi assunti ha inizio “Il bambino nascosto”, opera di Roberto Andò che ci parla di Gabriele, di Gabriele e Ciro e di Ciro. Due voci, cioè, che si fondono tra loro e che dall’isolamento dell’una e dell’altra formano una coralità che porta alla crescita di ciascuno. L’elemento che infatti più colpisce del testo, oltre ad una trama rapida e abbastanza solida che incuriosisce e invita alla lettura, è proprio la maturazione di ogni personaggio. Il musicista è all’inizio del romanzo uno scapolo sicuro nella sua abitudine e nei vari rituali. I fantasmi del passato restano fantasmi inesplorati e mai davvero affrontati, le certezze sono date da quella cupola di protezione così faticosamente costruita. Ciro, dal suo canto, è un bambino che non sa cosa vuol dire esserlo. Cresciuto con un pater familias criminale e fratelli a loro volta avvezzi all’arte della delittuosità, non conosce altro che questa dimensione e questa prospettiva. Non conosce i giochi di carte, non conosce i giochi più semplici quali imitare il verso degli animali o degli attori dei polizieschi alla tv. Giorno dopo giorno la convivenza porta Gabriele a riscoprire i piaceri di avere qualcuno di cui prendersi cura, qualcuno che ti aspetta a casa e che gradisce la tua compagnia e Ciro a riscoprirsi bambino, ad abbattere le difese, ad affrontare quell’età dell’innocenza che gli è stato impedito di vivere. Impara a fidarsi del suo nuovo protettore, impara a volergli bene così come l’altro nutre l’affetto sincero che si nutre verso un figlio nei suoi confronti. Purtroppo, la sorte non è clemente con loro, quanto potranno resistere in questa situazione senza via d’uscita?
Un elaborato che ricorda molto una sceneggiatura e che per questo si confà allo stile dell’autore e alle sue origini di regista, che si esaurisce in una giornata e che ha la forza di invitare chi legge a riflettere su tante tematiche sottese all’interno del libro contenute.
«La vita è un ospedale in cui ogni malato vorrebbe cambiare letto, questo lo ha detto un grande poeta francese, e forse è vero, ma alla mia età, la vita si riduce a poche cose essenziali, e cambiare letto non porterebbe nulla di nuovo.»