Dettagli Recensione
Libero, Andrea & Augusto
«Non è la morte in sé a terrorizzarmi, ma lo scampolo di vita che siamo costretti a portarci dietro prima dello stop, quel ritaglio inutile che non sappiamo più come riempire» p. 24
Quando Andrea Scotto riceve quella chiamata dalla sorella Marina, sposata con due bambine e un cane, un bassotto azzannatore di cinque anni e super viziato di nome Augusto ma di fatto un terrorista che ti guarda con sguardo di superiorità e che per questo si merita l’appellativo di Cane Pazzo Tannen, tutto si sarebbe aspettato tranne che la richiesta di prendersi cura di suo padre, Libero Scotto, comandante di navi a riposo, procidano e trasferitosi a Napoli con i figli dopo la morte della moglie, affetto dal cancro, cambiato dalla malattia e agli ultimi giorni della sua vita per un fine settimana. Andrea è un fotografo quarantenne, fortemente immaturo, incapace di prendersi ogni forma di responsabilità affettiva, refrattario ai rapporti parentali, refrattario ad ogni forma di vita regolare e lineare. Beve, fuma (canne comprese o come asserisce “sigarette al mentolo”), passa da una donna all’altra e non vuole vincoli. Non può però sottrarsi alla richiesta della donna, obbligata ad assentarsi per quello che sarà un fine settimana fatto di avventure rocambolesche, di riscoperte, di nuovi legami e di situazioni paradossali. E non solo le dieci accuratissime regole stilate da Marina non verranno rispettate ma avrà luogo un vero e proprio viaggio in quel di Procida, un viaggio che da un lato esaudirà il desiderio di Libero ma che dall’altro porterà il giovane a riassaporare luoghi e persone e a rivivere ricordi e ferite non rimarginate. Un percorso che porterà il protagonista a trovare il suo equilibrio e che sullo sfondo è accompagnato da un’isola intima, introspettiva, magnetica.
«Lui infine si è voltato e mi ha afferrato gli occhi con i suoi, e allora finalmente sono riuscito a percepire la sensazione di smarrimento che stava provando, quel sentirsi ormai fuori da tutto e in balìa del vento. E in quell’attimo ho capito che c’è qualcosa di carnale nel rapporto fra genitori e figli, qualcosa che si nasconde nello sguardo, nella bocca, si confonde con il respiro e ha a che fare con i sensi, con il sangue e con le cose che sanno di antico e ci sfuggono. Ho capito che hai voglia a serbare dentro di te il rancore, a custodirlo e proteggerlo come una balia per paura che cresca lontano e ti lasci senza più una difesa alla quale appigliarti; quando ti ritrovi davanti questo soffio ancestrale non puoi resistergli, e ti senti d’un tratto sfatto e senza forze, con le gambe che ti tremano come dopo una corsa o una lunga notte d’amore.» p. 79
Lorenzo Marone torna in libreria con una storia che sa far leva sulle corde del lettore e non delude le aspettative di chi ama questo genere narrativo e soprattutto l’autore. È una storia densa di significati, fortemente introspettiva, capace di solleticare la riflessione, che si interroga sui rapporti umani, sulla fragilità, sui rapporti familiari e che è avvalorata dalla penna inconfondibile del napoletano. Riassaporiamo inoltre i sapori e gli odori del luogo, un luogo che è percepito quale vitale e parte integrante della vicenda. Vera colonna portante inoltre del testo è Libero, un uomo che si mostra forse per la prima volta a quel figlio o che forse è proprio quel figlio a vedere per quello che è per la prima volta.
Tuttavia, devo ammettere di aver faticato un po’ nella lettura di quest’ultimo lavoro di Marone, non perché sia scritto male o perché manchi qualcosa, quanto perché quei tratti distintivi che lo caratterizzano ci sono tutti tanto che talvolta l’evoluzione del narrato è intuibile. Non solo, anche i personaggi che crea alla lunga tendono ad assomigliarsi proprio perché caratterizzati da quel denominatore comune consono. La sensazione di déjà-vu è stata costante.
In conclusione, una piacevole lettura, che colpisce soprattutto per il rapporto tra padri e figli ma che a mio avviso non brilla particolarmente di originalità.
«[…] Riflettei che ero solo, solo davvero.» p. 283
«Forse, per una volta aveva davvero ragione il comandante, rifletto prima di scattare: la vita è fatta di attimi di perfezione nei quali arriva la giusta luce e tutto ci appare come deve essere, e forse il segreto non è cercare di prolungare questi attimi, di fermarli a ogni costo, che nulla può essere fermato, ma accontentarsi di godere del bello, di scorgerlo. Forse si tratta solo di trovare il coraggio di non trattenere ciò che amiamo, chi amiamo, di lasciar sparire la terra all’orizzonte, confidando che tanto al prossimo battere di ciglia ci sarà un nuovo piccolo brillio a rendere, seppure per un istante tutto perfetto» p. 297
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