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Un esordio piacevole
«Non riuscivo a capire come avessi fatto ad arrivare a quel punto. Quando avevo perso il mio lavoro nello studio medico non mi ero preoccupata più di tanto. Mio marito guadagnava abbastanza per entrambi, potevo stare tranquilla, e aspettare che le cose girassero meglio. O comunque così credevo. La verità era che il mio matrimonio stava in piedi come una capannuccia fatta con gli stuzzicadenti già da prima, ma io non mi ero accorta della velocità con cui perdeva i pezzi, nemmeno quando lui tornava la sera a cena e accendeva la tv a tutto volume, pur di non dover chiacchierare con me. D’un tratto m’ero ritrovata a chiedergli i soldi per la schiacciata o per la ricarica del telefono, e da lì a fare la fila per un posto di badante il passo è breve»
Il suo nome è Maria Vittoria Baroncini, detta Marvi, è una donna sui quarant’anni, dai capelli ricci ingovernabili, ed è in una fase della vita molto particolare perché oltre che ad aver perso il lavoro ha perduto anche le coordinate di se stessa.
Con sulle spalle un matrimonio ormai concluso con un marito alquanto deprecabile, indebitato fino al collo, pretenzioso, odioso ed esigente, la giovane è alla ricerca disperata di un impiego quando viene contattata dall’ufficio di collocamento per ricoprire il ruolo di dama di compagnia di un anziano livornese. Filosofo, ex insegnante, laureato due volte, riflessivo e attento ai dettagli, Luciano Farnesi, è un uomo di ottant’anni, di mezza statura, pochi ingovernabili capelli bianchi, ben dritto in piedi, tutto infagottato per il perenne freddo che gli attanaglia le ossa, malato tumorale e ormai affetto da cecità. Una cecità che non ha però offuscato anche la sua memoria, la sua mente. Tutta la sua lucidità si riversa nello studio, luogo in cui una finestra copre un’intera parete rivolta a ovest irradiando una luce così forte da illuminare tutta la libreria e tutti gli scaffali pieni di libri fino al soffitto. Perché per lui questi hanno un’anima, sono quindi indispensabili.
«Pensai che è come quando stai sulla battigia col mare mosso e arriva l’ondata lunga. Ti tira giù quel tanto che basta per riempierti di sabbia. Comunque è sabbia. Solo sabbia.»
Tra Marvi e Luciano la sintonia è immediata. Tra i due si instaura un rapporto forte, solido, fatto di caffè mattutini, passeggiate e letture. Passi di componimenti che salvano il cuore, che nutrono l’anima in quei momenti di grande difficoltà del vivere. Maria Vittoria non conosce il mondo della filosofia né l’universo del leggere, i suoi studi si sono interrotti troppo presto ma ne è comunque colpita. Inizia a far propri quei pensieri di Pascal, inizia a cogliere quelle stesse emozioni e quelle stesse sensazioni che erano proprie del Professore. Ben presto si rende inoltre conto di quanto queste siano capaci di aprirle gli occhi sulla sua vita, di quanto possano donarle il coraggio e la forza di andare avanti e di maturare. Conoscerà Angelo, conoscerà Elisa, conoscerà la Vally, conoscerà la brutalità dell’esistenza che oggi ci permette di esserci, domani chissà.
«Ma io l’annoio con questi discorsi? – No, professore, mi sembra che lei mi accenda come una lampadina.»
«Credevo di poter leggere i miei libri finché avessi avuto un filo di luce che filtrava dalle pupille, e invece a volte bisogna guardare, oltre che leggere. Sa? Non avevo considerato che la luce potesse servire ad altro.»
Anche quando l’uomo inizia a distaccarsi da tutto quel che ama il legame non ne risente. “Sembrava che si distaccasse dalle cose, in un modo più amaro e sofferto di quello delle Oblate. Le uniche cose di cui pareva non stancarsi erano i luoghi della mente, e il ricordo di qualche posto in cui conservava un’immagine sua”. Ed è proprio da quella libreria che il sintomo del distacco ha inizio. Il suo svuotarsi è un’emorragia di parole, di sentimenti, di desideri che parte esattamente da quella che è sempre stata la ricchezza principale.
Un componimento con tanti intenti è quello di Alice Cappagli, uno scritto in cui la protagonista riscopre che la filosofia può essere utile nella vita di tutti i giorni, un componimento in cui ogni lettura diventa, per lei, uno strumento per mettere a fuoco delle cose che fino ad allora le erano parse confuse e raccogliere i cocci di un’esistenza trascorsa ad assecondare gli altri. A far da cornice, Livorno con la sua Piazza Mascagni, il suo mercato, i suoi usi e costumi.
Per quanto però la morale dell’opera e gli intenti siano di tutto rispetto, purtroppo il testo non arriva completamente. In parte a causa di alcune inesattezze di tipo formale, in parte a causa di alcuni errori evitabili, in parte a causa di uno stile narrativo un po’ troppo lento, una penna non particolarmente erudita e a tratti un po’ troppo descrittiva, in parte a causa di un finale a cui si arriva con un ritmo pigro, fiacco mantenuto costante per tutto l’elaborato, ma che chiude il sipario in meno di dieci pagine. Piacevole l’uso del livornese in alcuni passaggi ma da toscana, non nascondo, di aver faticato a leggerli.
In conclusione, un esordio gradevole, che riesce a farsi apprezzare ma che presenta qualche lacuna e che a più riprese mi ha ricordato "L'eleganza del riccio" (con anche le dovute distanze).
«Tra le cose che esistono, le une dipendono da noi, le altre non dipendono da noi. Dipendono da noi: giudizio di valore, impulso ad agire, desiderio, avversione, e in una parola tutti quelli che sono propriamente fatti nostri. Non dipendono da noi il corpo, i nostri possedimenti, le opinioni. […] Le cose che dipendono da noi sono per natura libere, senza impedimenti, senza ostacoli. Le cose che non dipendono da noi sono in uno stato di impotenza, di schiavitù, di impedimento, e ci sono estranee. Ricordati dunque che, se credi che le cose che sono per natura in uno stato di schiavitù siano libere e che le cose che ti sono estranee siano tue, sarai ostacolato nell’agire, ti troverai in uno stato di tristezza e di inquietudine… […] Non dobbiamo volere con ostinazione che le cose vadano come desideriamo, ma desiderare che vadano come vanno.»
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